Sabato 30 settembre 2010
Ore 11.30. Sono a Fundeporte, la scuola di Quito Sud dove mi sto occupando del laboratorio di teatro. Abbiamo appena finito le prove, quando ricevo una telefonata di Cetty. “Ale dove sei? Non ti muovere, è successo un casino, la polizia è entrata in sciopero e la città è nelle mani di nessuno. I poliziotti stanno bruciando copertoni per bloccare le strade. Noi siamo barricati nella Conferencia Episcopal (l’ufficio dove lavorano lei e Marco), aspetto che torni Marco per andare a casa, sperando che non ci abbiamo già derubato. Ci aggiorniamo tra un po’”.
Metto giù e mi fiondo ad avvisare le altre ragazze e a chiedere spiegazioni ai colleghi in ufficio, ascoltare la radio, leggere un po’ di notizie online, avvisare casa che sto bene e non c’è da preoccuparsi.
Nel frattempo arriva la telefonata di Christian, il responsabile di noi volontari. “State tranquilli, non vi muovete, questo fine settimana è proibito uscire da Quito. L’Ambasciata Italiana ha telefonato e parla di colpo di Stato. Per adesso c’è un po’ di casino per strada, ma probabilmente in poche ore la situazione si calmerà”.
Polizia in sciopero? Ladri in libertà? Strade bloccate? Colpo di stato? Ma che sta succedendo?, mi chiedo. E più egoisticamente, riuscirò a tornare a casa considerando che per farlo devo attraversa mezza Quito, una delle città più lunghe al mondo?
12.00 Mi viene spiegato che lo sciopero nasce dalla decisione del presidente dell’Ecuador Rafael Correa di eliminare alcuni benefici di cui godono gli organi di polizia, specificamente si parla dell’eliminazione di una liquidazione o pensione piuttosto alta. Anche se si sottolinea che il governo Correa ha praticamente triplicato lo stipendio base. Mi interrogo se questo sciopero abbia senso, se il mio interlocutore non abbia capito niente o se ci sia qualcosa sotto che non capisco.
12.30 Chiedo informazioni ai tassisti che dichiarano che le strade sono tutte bloccate ed è impossibile arrivare da qualsiasi parte.
13.00 Dalla radio arriva la notizia che il presidente Correa ha tentato un dialogo con la polizia. Durante l’incontro qualcuno ha lanciato dei lacrimogeni, tre poliziotti sono morti, Correa è caduto dalle stampelle (si è operato al ginocchio circa una settimana fa) ed è stato trasportato nell’ospedale della polizia. Si dichiara sequestrato e l’operatore radio invita gli ascoltatori a scendere in piazza per liberare il presidente in nome della patria e della democrazia.
13.30 Gira la notizia che a Quito sono già state assaltate 2 banche e un centro commerciale.
14.00 Il mio stomaco si lamenta, vado a mangiare
15.15 Ritento la carta tassista. Senza porre problemi accetta di portarmi a casa. Il percorso da Quito Sud a Quito Nord scorre senza particolari intoppi. Ci imbattiamo in un solo rogo di copertoni (questa è la maniera tipica in America Latina di bloccare le strade durante le manifestazioni) che aggiriamo senza difficoltà. Le strade sembrano piuttosto tranquille, ma è proprio questo il campanello d’allarme: quasi tutti i negozi hanno le serrande abbassate, pochissime le auto e gli autobus in giro (fatto assolutamente inusuale nella caotica Quito all’ora di punta), stazioni dei tram deserte. Dalla radio giunge la notizia che a Guayaquil sono state assaltate 3 banche. Raccolgo la prima delle testimonianze dei miei interlocutori preferiti, i tassisti. In questo caso un anziano signore dal sorriso e dai modi gentili: “La situazione è pericolosa, ma non tanto. Alcune strade sono bloccate, i ladri stanno saccheggiando la città, ci sono poche macchine e pochi taxi perché molti non stanno lavorando per paura di essere rapinati, io stesso mi spavento a prendere gruppi di 3/4 passeggeri. Senza polizia non c’è sicurezza di nessun tipo. Ma c’è anche chi dice che sia tutto organizzato per rafforzare l’immagine del presidente”. Il tassista è tranquillo, ma allo stesso tempo in allerta, sta molto attento ai miei movimenti, soprattutto se bruschi, ma conversiamo amabilmente, aspetta che apra il portone ed entri in casa prima di andar via.
15:30 Ascoltiamo dalla radio che a Guayaquil è scoppiato il panico, sono state rapinate 3 banche e si saccheggia un po’ dappertutto.
16.00 Sono a casa. Chiacchiero un po’ con Marco e Cetty e tranquillizzo amici e parenti che mi contattano tramite i diversi mezzi di comunicazione che offrono i nostri tempi moderni.
17.00 Sto giusto chattando con alcuni di loro, quando si sentono delle grida per strada. Inizialmente penso che siano i bambini dell’asilo nido accanto casa nostra. Ma non può essere, grida troppo forti e disperate. Cazzo. Che fare? Marco e Cetty non hanno dubbi, aprono la porta e muniti di coltello scendono a vedere, io li seguo anche se con un po’ di titubanza. Dal portone entra una donna dicendo che hanno rapito un bambino. Non è possibile arrivare a tanto. Usciamo e troviamo la presunta ragazza madre accompagnata dal fidanzato. Nessun bambino rapito per fortuna, ma hanno cercato di rapirla, secondo il suo racconto, 4 uomini di aspetto distinto scesi da una macchina con una pistola. Forse solo un tentativo di rapina, a mio parere. Ma basta per farci spaventare e richiudere in casa con un animo un po’ più turbato.
17:30 Decidiamo di andare al negozietto sotto casa per comprare la carta igienica. Se dobbiamo stare chiusi in casa a lungo e subire questi spaventi è indispensabile 😉 . Scendiamo tutti e 3 insieme, ma il negozietto è chiuso. Bussiamo quindi all’asilo nido per chiederne un po’. La responsabile dell’asilo appare molto preoccupata, dice che dobbiamo stare attenti, soprattutto noi stranieri, uscire il meno possibile, è stato stabilito un coprifuoco alle 18.00 e non si sa se la situazione migliorerà o no.
In realtà scopriremo on-line che Correa ha decretato 5 giorni di “estado de excepciòn”, una specie di stato di emergenza in cui i militari sostituiranno la polizia e in cui secondo l’articolo 165 della costituzione ecuadoriana il presidente può praticamente fare quello che vuole: “limitare il diritto all’inviolabilità del domicilio, inviolabilità della corrispondenza, libertà di transito, libertà di associazione e di riunione, libertà di informazione”
18:00 Chatto con la mia collega di lavoro che mi rassicura dicendomi che “L’Ecuador è così, ogni 2 /3 anni succedono cose del genere e poi torna la tranquillità. Ma probabilmente domani potrai girare per strada tranquillamente, anche se sarebbe meglio evitare di andare fino al Sud. In realtà domani non si sa come saranno messe le cose. Anche questo vuol dire America Latina.”
19:00 Io e Cetty decidiamo di sfidare ansie e paure, dedicandoci alla preparazione di deliziosi arancini, da utilizzare anche come bombe in caso di attacco di eventuali ladroni. Manteniamo la radio accesa e aspettiamo eventuali sviluppi.
20.00 Dalla radio e televisione on-line, capiamo che si sta organizzando un’operazione militare per liberare il presidente Correa, ancora rinchiuso nell’ospedale della polizia. E’ tutto molto confuso: si sentono spari, si vede del fumo, un poliziotto a terra, un’infinita sparatoria. A un certo punto la radio si spegne e ci rendiamo conto che anche da casa nostra il suono degli spari è evidente e costante. La sparatoria dura circa un’ora, finché la radio enuncia che il presidente è stato liberato e in soli 7 minuti portato al palazzo presidenziale dove si affaccerà per effettuare il suo discorso. Intanto da casa nostra si sente, che nonostante la liberazione sia avvenuta, si continua a sparare.
22.00 Mangiamo gli arancini. Telefoniamo al nostro responsabile che ci dice di non sapere ancora se domani sarà il caso di andare al lavoro o no, di restare comunque a casa fino a nuove istruzioni.
23.00 Andiamo a dormire, ben chiusi a chiave nelle proprie stanze e accompagnati da un coltellaccio da cucina… siamo tranquilli, ma non si sa mai…
L’indomani alle 10.00 arriva la telefonata di Christian “Da Roma hanno deciso che non dovete muovervi fino a martedì, niente lavoro, niente uscite, potete andare al negozietto sotto casa a fare la spesa. Abitate in una zona calda, per cui meglio non uscire di casa…” La telefonata puzza un po’ di inutili allarmismi di una qualche istituzione troppo lontana dalla reale situazione del paese e dalle esigenze di noi poveri volontari che già dopo meno di 24 ore chiusi in casa ci sentiamo come al grande fratello e ci lamentiamo di un giorno di vacanza passato in casa, cosa che in situazioni normali, se non costretti, avremmo apprezzato con gioia. Vallo a capire il genere umano, ogni costrizione seppur di un qualcosa a volte desiderato lo rende immediatamente odioso e insopportabile.
Scrivo una mail ai colleghi ecuadoriani per avvertire della mia assenza al lavoro e ricevo la risposta ironica e rassicurante che mi aspettavo dal presidente dell’associazione: “La situazione è già tornata alla normalità. Così è l’America Latina, capace di cambiare la propria rotta in poche ore. Non è successo nient’altro che un movimento di un gruppo che ha fatto arrabbiare a un presidente davanti al quale tutti dobbiamo abbassare la testa. Tutti noi rifiutiamo qualsiasi tentativo di colpo di stato, però allo stesso tempo rifiutiamo la cattiva gestione politica di questo tema. Speriamo che gli dei illuminino tutti per continuare ad andare avanti dialogando… dialogando però sappiamo che qui bisogna mobilizzarsi per farsi ascoltare. Così è la vita. Però oggi c’è un sole bellissimo che fa dimenticare i fatti negativi di ieri. Un abbraccio e esci a prendere il sole che no pasa nada (non succede niente)”
Effettivamente, guardando fuori dalla finestra, il sole splende alto e tranquillo sulla nostra provvisoria prigione, il traffico è tornato alla normalità, parte della polizia è tornata a lavorare, la gente cammina tranquilla e serena come un giorno qualsiasi… Citando le parole di un nuovo amico tassista “qua è così: un giorno si crea un casino impressionante e il giorno dopo è come se non fosse successo niente”.
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