Perfect Blue Recensione: l'esordio di Satoshi Kon è ancora un capolavoro

Arriva in sala uno dei titoli più importanti di fine millennio, tra i film d'animazione che più hanno segnato il medium: Perfect Blue di Satoshi Kon.

Perfect Blue Recensione: l'esordio di Satoshi Kon è ancora un capolavoro
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Che periodo gli Anni Novanta per il cinema d'animazione giapponese. Nel prolifico decennio caratterizzato da Principessa Mononoke, Porco Rosso, Ghost in the Shell, Jin-Roh, The End of Evangelion e Ninja Scroll, per citare i più significativi, iniziò a farsi spazio Satoshi Kon, fino a quel momento conosciuto davvero solo da pochi addetti ai lavori - dalla sua parte aveva però il sostegno di nomi di rilievo, a partire da Katsuhiro Otomo. Risale infatti al 1997 la sua opera prima, Perfect Blue, uno dei punti più alti di un'incredibile quanto breve carriera - difficile dire se sia il più alto, vista l'elevata qualità media dei successivi titoli, tre lungometraggi (il mai troppo citato e meraviglioso Millennium Actress, Tokyo Godfathers e Paprika) e una miniserie, Paranoia Agent.

Perfect Blue trova (finalmente!) per la prima volta spazio nelle sale italiane, a 27 anni dalla realizzazione, il 22, 23 e 24 aprile, grazie a Nexo Digital, in collaborazione con Yamato Video. Il restauro in 4K è ideale per affacciarsi per la prima volta o per risprofondare nel vortice oscuro dell'esistenza di Mima Kirigoe, la giovane (ex) idol che, dopo essersi messa alle spalle il trio pop CHAM, decide di lanciarsi nel mondo della recitazione. Un percorso che, però, è destinato a sconvolgere i precari equilibri psicologici di una mente vittima di un sistema mediatico e sociale tossico ormai alla deriva.

Chi, dove, cosa sei?

Per certi versi, c'è un prima e un dopo Perfect Blue. È vero, non si tratta certo della prima idea di testo audiovisivo d'animazione complesso e "adulto", specie nel panorama nipponico, ma a fare la differenza in questo caso è l'intricata elaborazione psicologica della vicenda, il lavoro terrificante di indagine della psiche e la complessità delle ambizioni, come non si era visto prima di allora. Ad ogni visione il film di Kon non è mai lo stesso, ogni fotogramma muta e si distorce fino a deflagrare e rinascere sotto forme differenti.

Svariati livelli di lettura e interpretazione che mai appesantiscono la visione o ne minano la godibilità, oltre che, tantomeno, la leggibilità anche soltanto superficialmente. Perché la parabola di Perfect Blue pare una impressionante da qualunque parte la si guardi e, anzi, migliora via via che si procede nella sua densa stratificazione.

Così è per la capacità che ha il suo autore di lavorare con i generi e l'onirico con i piedi ben saldi su un reale molto tangibile e sul presente, su una dimensione pienamente umana, di ragionare sul corpo (che qui perde ogni potenzialmente pericolosa carica erotica) e la mente, sulle deraglianti conseguenze della strumentalizzazione ed esposizione di essi. Quando non è più chiaro cosa siano, di chi siano, chi siano.

Attraverso la giovane protagonista, Kon guarda dritto negli occhi un Giappone alienato, affronta coraggiosamente un'epoca di transizione, di fin troppo veloce mutazione ed evoluzione (il World Wide Web non è ancora di facilissima comprensione generale) e di instabilità politica e socio-culturale, figlia di una modernità così liquida da far naufragare le certezze. Chi è Mima e, per estensione, chi è (cosa è diventata, in questo marasma) la nazione nipponica?

Una delle cause scatenanti di questa messa in crisi, simbolicamente, è così la société du spectacle - e non solo - che inghiotte le anime più pure e le disintegra. Uno star system che alimenta l'idolatria più scellerata e un malsano fanatismo (internet e la deriva della percezione dell'influencer, ante litteram, così attuale), che promette di essere fabbrica di sogni ma che alla fine si rivela matrice di incubi.

La perdita dell'io attraverso lo sguardo

La crisi paranoica dell'individuo - e della nazione e dell'intera società postmoderna, in quello che spesso è definito il "decennio perduto" - passa anche, e soprattutto, attraverso il valore e l'uso delle immagini, come di recente anche Alex Garland non ha esitato ad esplicitare (qui la recensione di Civil War). Immagini e sguardi viscerali che sfumano e trasfigurano il concetto di reale e che rendono fluido e mutevole il confine con la finzione, come occhi che uccidono di powelliana memoria.

Kon lavora sul senso di vertigine, sullo straniamento tra dentro e fuori, finzione scenica - il palco o ancora più a fuoco il set, una zona grigia in cui per antonomasia si assumono identità altre e i confini con il reale diventano labili - e ambiente privato, quest'ultimo, poco a poco, sempre meno sicuro, distorto da un'instabilità che non trova più appigli solidi. E lo fa grazie al polimorfico gioco di percezioni, allo sdoppiamento di personaggi, voci e luoghi, identità, spazi e tempi, con uno sguardo sulle ossessioni a la De Palma, oltre che ad Argento o Hitchcock (ispirando a sua volta, con relative accuse di plagio fatte da Satoshi Kon), piegati e adattati alle potenzialità dell'animazione, sfruttate appieno, e contorce ogni elemento anche grazie all'uso dello specchio - primo di una grande quantità di interferenze visuali - onnipresente simbolo di un riflesso in cui però ciò che si vede non è mai due volte lo stesso.

Racconto morboso di sangue e tortura, sulla difficoltà per un epoca e, nello specifico, un paese a lasciare andare totalmente il passato, ben rappresentato dalla Mima idol come incubo per la Mima attrice.

Perfect Blue trova compimento e massima espressione artistica non solo negli stimoli visuali dell'horror dei decenni immediatamente precedenti - del resto, è questo o no un vero e proprio horror? - ma soprattutto nell'uso dinamico del montaggio, della grammatica ritmica con la quale formare e sformare la vicenda per potenziarne la portata angosciante e oppressiva, nella forza delle transizioni che intensifica il rapporto-scontro tra vero e falso, vita e spettacolo, che coglie benissimo quel momento in cui gli opposti si avvicinano fino a confondersi - i primi cinque minuti sono un esempio magistrale e sbalorditivo, dagli effetti destabilizzanti, di tale meccanismo.

Confusione come stato d'animo ideale per un film che anche quando sembra aver risolto in maniera molto classica i suoi interrogativi, non riesce mai concretamente a dare una risposta definitiva, inganna e quando sembra che stia prendendo una strada cambia direzione. Forse alcuni aspetti della mente sono destinati a restare ignoti e certe pulsioni non è possibile capire da dove provengano. Perché soprattutto quel finale sorridente, quasi liberatorio, quel «sono io quella vera», appare ancora più inquietante nella misura in cui non si sa bene, ancora, chi sia quell'io.

Perfect Blue resta, a distanza di quasi trent'anni, un gioiello di rara forza politica e artistica, radicato nella sua epoca ma spaventosamente premonitore, da ammirare per l'ennesima volta e in cui immergersi. Difficile restare indifferenti. Come difficile è non pensare a cosa avrebbe ancora potuto dare, oggi, Satoshi Kon all'arte tutta.

Perfect Blue Pietra miliare dell'animazione giapponese e del cinema Anni Novanta, Perfect Blue è tra le opere più influenti del suo tempo. L'esordio di Satoshi Kon è una mina vagante che ammalia e depista, gioca con lo spettatore fino a confonderlo, a renderlo inerme davanti alla decomposizione filmica e narrativa. La decadenza del Giappone - come luogo specifico ma al contempo simbolo universale - e le derive della modernità, il macabro sistema dello spettacolo che deflagra l'identità dell'io e lo pone in uno stato di perdizione, nel quale la psiche ne esce sempre, in qualche modo, sconfitta: tutti temi che l'autore nipponico tratta con precisione chirurgica, senza sensazionalismi e facili moralismi, mentre gioca a disorientare lo spettatore e i personaggi stessi. Un saggio sul montaggio e sulla suspence, su come costruire una narrazione complessa e torbida ma non meno votata allo spettacolo. Perfect Blue arriva per la prima volta nelle sale italiane, grazie al restauro in 4K, e i suoi quasi trent'anni non si vedono affatto. Anzi, tutt'altro.

9.5