La guerra d'Etiopia, nota anche come guerra d'Abissinia o seconda guerra italo-etiopica, si svolse tra il 3 ottobre 1935 e il 5 maggio 1936 e vide contrapposti il Regno d'Italia e l'Impero d'Etiopia. Condotte inizialmente dal generale Emilio De Bono, rimpiazzato poi dal maresciallo Pietro Badoglio, le forze italiane invasero l'Etiopia a partire dalla colonia eritrea a nord, mentre un fronte secondario fu aperto a sud-est dalle forze del generale Rodolfo Graziani dislocate nella Somalia italiana. Nonostante una dura resistenza, le forze etiopiche furono soverchiate dalla superiorità numerica e tecnologica degli italiani e il conflitto si concluse con l'ingresso delle forze di Badoglio nella capitale Addis Abeba.
La guerra fu la campagna coloniale più grande della storia: la mobilitazione italiana assunse dimensioni straordinarie, impegnando un numero di uomini, una modernità di mezzi e una rapidità di approntamento mai visti fino ad allora. Fu un conflitto altamente simbolico, dove il regime fascista impiegò una grande quantità di mezzi propagandistici con lo scopo di impostare e condurre una guerra in linea con le esigenze di prestigio internazionale e di rinsaldamento interno del regime stesso, volute da Benito Mussolini. In questo contesto i vertici militari e politici italiani non badarono a spese per il raggiungimento dell'obiettivo: il Duce approvò e sollecitò l'invio e l'utilizzo in Etiopia di ogni arma disponibile e non esitò ad autorizzare l'impiego in alcuni casi di armi chimiche. L'aggressione dell'Italia contro l'Etiopia ebbe rilevanti conseguenze diplomatiche e suscitò una notevole riprovazione da parte della comunità internazionale: la Società delle Nazioni decise d'imporre delle sanzioni economiche contro l'Italia, ritirate nel luglio 1936 senza peraltro aver provocato il benché minimo rallentamento delle operazioni militari.
Le ostilità non cessarono con la fine delle operazioni di guerra convenzionali, ma si prolungarono con la crescente attività della guerriglia etiopica dei cosiddetti arbegnuoc ("patrioti") e con le conseguenti misure repressive attuate dal governo italiano, durante le quali non furono risparmiate azioni terroristiche nei confronti della popolazione civile; la resistenza etiope collaborò poi con le truppe britanniche nella liberazione del paese dagli italiani nel corso della seconda guerra mondiale. Formalmente lo stato di guerra ebbe ufficialmente termine il 10 febbraio 1947 con la stipula del Trattato di Parigi fra l'Italia e le potenze alleate, che comportò per l'Italia la perdita di tutte le sue colonie africane.
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I moti di Milano furono una rivolta contro il governo di parte della popolazione di Milano che si svolse tra il 6 e il 9 maggio del 1898. Gli scontri avvennero a seguito di manifestazioni da parte di lavoratori che scesero in strada contro la polizia e i militari per protestare contro le condizioni di lavoro e l'aumento del prezzo del pane dei mesi precedenti, come avvenne anche in altre città italiane nello stesso periodo.
Le notizie da Milano portarono il governo a dichiarare lo stato d'assedio con il passaggio di poteri al generale Fiorenzo Bava Beccaris. Egli agì duramente fin dall'inizio per soffocare ogni possibile forma di protesta; l'utilizzo indiscriminato delle armi da fuoco e, in particolare, di cannoni all'interno della città portarono il risultato desiderato, ma anche numerose vittime, spesso semplici astanti. I «cannoni di Bava Beccaris» passarono alla storia come simbolo di un'insensata e sanguinosa repressione.
Gli avvenimenti furono considerati parte della reazione conservatrice alla svolta politica in atto all'epoca in Italia, «un colpo di coda, l'ultimo sussulto degli ambienti retrivi di Corte, della destra liberale incline al "principato costituzionale" alla prussiana, dei fautori della interpretazione restrittiva dello Statuto albertino».
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