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PANTERE NERE

category internazionale | lotte indigene | opinione / analisi author Saturday January 28, 2017 23:29author by Gianni Sartori Report this post to the editors

La lotta per l'autodeterminazione di una comunità oppressa che aveva saputo individuare il nemico principale non in altri gruppi sociali o etnici ma nel capitalismo (pur tra non poche contraddizioni). Sconfitti, ma moralmente vincitori, i militanti delle Pantere Nere divennero un esempio per portoricani, chicanos, proletari bianchi...

“ Martin Luther King ha pregato e predicato per la libertà, Malcom X ha detto che bisognava prendersela, i Black Panthers lo hanno fatto”.
Melvin e Mario Van Peebles

LA BATTAGLIA PER LA LIBERTA' DELLE PANTERE NERE
(Gianni Sartori)

Aprire un articolo sulle Pantere Nere con una citazione attribuita a due registi afroamericani, padre e figlio, non è assolutamente fuori luogo.
Quando agli inizi degli anni settanta del secolo scorso Melvin Van Peebles realizzò “Sweet sweetback's baadasssss song” il B.P.P. (Black Panther Party) consigliò caldamente a “tutti i rivoluzionari neri” di andarselo a vedere. Nel film Mario, dieci anni, aveva una particina. Venticinque anni dopo i ruoli si erano invertiti. I due sono stati rispettivamente attore (Melvin, il padre) e regista (Mario, il figlio) in “New jack City” e “Posse”.
Nel 1995, con “Panther” (di cui Mario era il regista e Melvin lo sceneggiatore) realizzavano finalmente il loro vecchio sogno di girare un film sulle Pantere Nere, sulla loro epopea (dal 1966 al 1968), sulla repressione senza scrupoli a cui vennero sottoposte.
Negli Stati Uniti nessuno aveva voluto finanziare il film che in seguito venne sottoposto a una dura azione di boicottaggio. Del resto questo avvenne anche in Italia dove, più che nelle sale cinematografiche, venne proiettato nei circuiti alternativi (in particolare nei Centri Sociali Occupati) grazie al Leoncavallo che ne distribuì una copia sottotitolata.
“Panther” raccontava la storia dell'organizzazione rivoluzionaria di Bobby Seale, Huey P. Newton, Eldrige Cleaver* che negli sessanta cominciarono a pattugliare armati i ghetti per opporsi agli abusi della polizia. Dalla scorta a tutela di Betty Shabazz, vedova di Malcom X, fino alle provocazioni operate da CIA e FBI che arrivarono ad allearsi con la mafia per alimentare la diffusione della droga nei ghetti afroamericani. Sia per sradicarne lo spirito comunitario che per disarticolare l'organizzazione rivoluzionaria.

PRIMA C'ERA IL BLACK POWER, POI ARRIVARONO LE PANTERE NERE

Dalle rivolte di Watts, Detroit e tante altre metropoli, oltre che dalle lotte antisegregazioniste nel Mississipi e nell'Alabama, negli anni sessanta era nato il “Black Power” (Potere Nero, il cui esponente più noto fu Stokely Carmichael, poi conosciuto anche come marito di Miriam Makeba).
In seguito presero piede organizzazioni di classe e rivoluzionarie come la “League of Revolutionary Workers” di Detroit e, appunto, il Black Panther Party for Self Defence che ben presto assurse a un grande prestigio internazionale, soprattutto in quello che all'epoca veniva definito “Terzo Mondo”. Sicuramente le “Pantere” rappresentarono la novità più eclatante nel panorama politico statunitense di quel periodo, decisive nel catalizzare tutte le posizioni radicali fino ad allora sparse e confuse su metodi e obiettivi. Contribuirono enormemente anche allo sviluppo delle lotte dei radicali bianchi, delle organizzazioni studentesche e alla presa di coscienza, oltre che all'autorganizzazione, delle altre popolazioni oppresse degli USA (portoricani, chicanos, Indiani d'America, bianchi poveri...).

Il primo nucleo del Black Panther Party si costituì nell'ottobre del 1966 in California, a Oakland. All'epoca contava solo tre membri (Huey P. Newton, ministro della difesa, Bobby Seale, presidente e Bobby Hutton) che elaborarono una piattaforma politica in dieci punti. Tali rivendicazioni, fondamentali per organizzare la comunità nera e potersi opporre alla violenza della polizia, incontrarono l'immediato interesse degli abitanti dei ghetti.
L'organizzazione cominciò a crescere, si dotò anche di un giornale (il “The Black Panther”) e i primi tre militanti, autentica milizia popolare, cominciarono a percorrere armati (come all'epoca garantiva la Costituzione) le strade di Oakland, controllando l'operato dei poliziotti. I primi scontri furono soprattutto verbali e videro vincente la grande abilità dialettica, unita a una precisa conoscenza delle leggi, di Newton. Ogni discussione si trasformava in un vero e proprio comizio che permetteva agli abitanti dei ghetti di prendere coscienza dei propri diritti (oltre che dei doveri dei poliziotti) rendendo evidenti tutti quei trucchi e meccanismi con cui da sempre la polizia cercava di incastrare i neri sprovveduti.
Era finalmente un'occasione per scrollarsi di dosso la rassegnazione, per reagire agli abusi e alle ingiustizie. A questo punto la tattica della polizia cambiò. Vi furono numerosi attacchi alle sedi del partito, in genere da parte di poliziotti fuori servizio (che non vennero mai sospesi) e l'uccisione di Bobby Hutton, all'età di diciassette anni, mentre usciva disarmato e con le mani alzate da una abitazione. Nella stessa circostanza venne ferito gravemente anche Eldridge Cleaver. Da quel momento l'uccisione dei militanti più in vista divenne un fatto abituale. In poco tempo il B.P.P. Era riuscito a organizzare numerose attività nei ghetti, coinvolgendo soprattutto i disoccupati, i giovani esponenti delle bande di quartiere, gli emarginati. Vennero istituite le “Liberation Schools” (dove si insegnava la vera storia degli Stati Uniti: la schiavitù, il genocidio degli indiani...), programmi di colazioni gratuite per i bambini poveri, distribuzione di abiti, aiuto legale per i militanti arrestati. Ben presto il partito cominciò a radicarsi anche nelle prigioni e nell'esercito, dove l'oppressione sociale e razziale si riproduceva in modo esasperato.

Due i principali obiettivi dell'organizzazione: sviluppare il diritto all'autodifesa e all'uso delle armi quando venivano attaccati e la lotta politica su basi sempre più di classe e non di razza. Veniva quindi superato il concetto di “black power” che riteneva prioritaria la lotta dei neri contro i bianchi. Le “Pantere” temevano, non a torto, che una tale strategia avrebbe finito con l'essere cooptata dal sistema (vedi la “borghesia nera”, il “capitalismo nero”...). Anche per queste ragioni si scontrarono duramente con alcune organizzazioni nere nazionaliste come gli US di Ron Karenga. Da rileggersi in proposito la “lettera aperta” di Cleaver a Carmichael.

POTERE AL POPOLO
Lo slogan delle “Pantere” divenne “Power to the people”, individuando nel capitalismo il principale oppressore sia dei neri che dei portoricani, dei chicanos e dei proletari bianchi. E trovando nell'internazionalismo un formidabile strumento di lotta.
Da ciò derivava la profonda e dichiarata solidarietà con il popolo vietnamita, con quello cubano, algerino...I militanti del partito in divisa (basco nero, giacca di pelle nera, maglione scuro con il simbolo della pantera) che pattugliavano con le armi bene in vista le aree proletarie stavano diventando ormai uno spettacolo abituale e, naturalmente, l'effetto era galvanizzante per i frustrati e, fino a quel momento, rassegnati abitanti dei ghetti.
Nelle prigioni il messaggio delle Pantere trovò un terreno fin troppo fertile. Del resto proprio nelle galere statunitensi era maturata la presa di coscienza di disperati come Malcom X e George Jackson, alimentata dalla violenza dell'istituzione, dal sadismo dei secondini, dalla quasi impossibilità per dei diseredati di spezzare il circolo vizioso reato-condanna-emarginazione-altro reato-altra condanna.
La stragrande maggioranza dei detenuti era costituita da neri e portoricani mentre i secondini erano per lo più bianchi.
L'intervento delle Pantere offrì una prospettiva di lotta comune ai prigionieri. Partendo da lotte rivendicative sul vitto, l'alloggio, la libertà di corrispondenza il movimento giunse presto a confrontarsi con tutto il sistema carcerario. Nel settembre del 1971, un mese dopo l'assassinio di G. Jackson, l'opinione pubblica si trovò ad assistere incredula alla feroce repressione della rivolta di Attica. Una efferata carneficina in cui, oltre a una trentina di detenuti, il fuoco della polizia e della Guardia Nazionale stroncò la vita anche di parecchi ostaggi (come confermò una successiva inchiesta).
Così lo stato imperialista rispondeva, con le squadre della morte e con i massacri, al timore suscitato dall'autorganizzazione degli oppressi.
In precedenza, nel 1970, alcuni poliziotti avevano assassinato in una sede del B.P.P. due ragazzi mentre dormivano nel sacco a pelo: Fred Hampton e Mark Clark. In seguito un Gran Jury federale stabilì che tutti i novantanove colpi erano stati esplosi dai poliziotti e che le due giovani “Pantere” erano passate direttamente dal sonno alla morte. A queste esecuzioni ne seguirono altre, episodi oscuri su presunti “scontri” tra esponenti del B.P.P. e poliziotti che sistematicamente si concludevano con la morte dei militanti neri.
Contemporaneamente Seale, Cleaver (in seguito rifugiatosi in Algeria) e Newton vennero arrestati in base ad accuse chiaramente prefabbricate.
I processi risultarono una farsa. Quando Bobby Seale, privo di avvocato, richiese di potersi difendere da solo (come riconosciuto dalla Costituzione) venne fatto imbavagliare e incatenare dal giudice Hoffman. Intanto continuava il tiro al bersaglio contro i militanti e la crisi innescava lacerazioni e faziosità nel partito, soprattutto tra le posizioni velleitarie di Cleaver, in quel periodo più favorevole alla lotta armata e quelle di Newton e Seale, convinti della priorità dell'educazione politica.
Tutto questo contribuì al declino del B.P.P. lacerato tra il sostegno ai Weathermen e l'alleanza con lo spompato partito comunista americano. Emblematica dello stato confusionale in cui versava una parte dell'organizzazione, la partecipazione elettorale al fianco di Peace and Freedom Party con la candidatura (poi ritirata) di Cleaver a presidente degli USA. Anche la vita di Huey P. Newton si concluse tragicamente. Venne assassinato da Tyrone Robinson (a cui Newton aveva proibito di spacciare droga nel suo quartiere) nel 1989.
Nonostante le innegabili contraddizioni e sconfitte (in parte innescate dalla feroce repressione statale) va sottolineato come l'esempio delle Pantere Nere fu indispensabile per la presa di coscienza di altre minoranze oppresse degli Stati Uniti. Organizzazioni come i Young Lords (portoricani), i Brown berets (chicanos), Stone Revolutionary Grease e Patriot Party (proletariato bianco) e anche l'AIM (Movimento degli Indiani d'America, fondato nel 1968 a St. Paul nel Minnesota) furono assai influenzate dalle Pantere Nere. Ne adottarono i metodi di lotta e propaganda (dalle “colazioni gratuite” all'autodifesa armata) e subirono anche gli stessi metodi genocidi di repressione governativa. Ma questa è un'altra storia in attesa di essere raccontata. Magari da qualche epigono portoricano, messicano o indiano dei due Van Peebles. E concludo citando l'ultima frase del protagonista del film “Panther”: “Per come la vedo io, la lotta continua”.
Gianni Sartori

nota 1:
Con il senno di poi , ritengo che sul “caso Eldridge Cleaver” (scomparso nel 1998) alcune precisazioni siano indispensabili. Se all'epoca molti ammiratori delle Pantere Nere non erano a conoscenza delle teorizzazioni (poi messe in pratica) di questo personaggio, tacerne oggi i risvolti ambigui, e peggio, sarebbe imperdonabile.
Per quelli della mia generazione, Cleaver era uno dei rivoluzionari citati (a questo punto direi a sproposito) nella canzone dei Jefferson Airplane “Flowers of the Night”. L'ex cantante dei Great Society, Grace Wing Slick (ex moglie di Jerry Slick e compagna di Paul Kantner con cui nel 1970 realizzerà un disco dal titolo esplicito: “Blows against the empire”) era approdata ai Jefferson Airplane dopo la defezione di Signe Toley Anderson.

Prendendo, riguardo a Cleaver, una sonora cantonata l'allora bellissima Grace cantava :

“Paine and Pierce and Robespierre, Juarez and Danton
Luther King and Lumumba, dead but from gone.
Lenin, Cleaver, Jesus too, outlaws in their nations
revolutionaries all, dreamed of liberation”

Di Cleaver conoscevamo anche la famosa sentenza (ma forse era stata “presa in prestito”): “Se non fai parte della soluzione fai parte del problema”.
Inoltre era stato ferito dalla polizia ed era espatriato rifugiandosi in Algeria. E tanto ci bastava, evidentemente.
In pochi, io credo, avevano letto veramente il suo “Soul on Ice” (Anima in ghiaccio).
Degli aspetti più inquietanti della sua personalità eravamo quindi all'oscuro.

Nemmeno la pubblicazione nel 1975 del libro di Susan Brownmiller “Against our will” (pubblicato l'anno dopo anche in Italia, da Bompiani, con il titolo: “Contro la nostra volontà – uomini, donne e violenza sessuale”) fu in grado di scuoterci e sollevarci dalla nostra ignoranza, non beata ma colpevole.
O forse lo lessero in pochi, così come non avevano (avevamo) letto in precedenza la biografia, di Cleaver.

Dopo aver analizzato il caso dell'uccisione di un giovane nero, Emmett Till, assassinato nel 1955 per aver corteggiato una donna bianca (presumibilmente l'omicidio era opera del marito) Susan Brownmiller ricordava come Eldridge Cleaver avesse reagito all'episodio.
Il futuro esponente del Black Panther Party for Self Defence raccontava di aver avuto diciannove anni quando vide “su una rivista una foto della donna bianca con cui si diceva che Emmett Till avesse amoreggiato”. Cleaver espresse per esteso le sue reazioni perché il caso Till fu, a suo dire, un evento fondamentale della sua vita:
“Nel guardare la foto, avvertii quella lieve tensione al centro del petto che sento quando una donna mi eccita. Provai un senso di disgusto e di collera verso me stesso. Ecco una donna che aveva provocato la morte di un nero, probabilmente perché quando egli la vide provò anche lui le stesse tensioni di sensualità e di desiderio nel petto, e probabilmente per gli stessi motivi generali per cui io le provavo...Guardai più e più volte la fotografia, e nonostante tutto e contro la mia volontà e l'odio che provavo per la donna e per tutto quello che rappresentava, essa mi eccitava. Sentii di odiare me stesso, l'America, le donne bianche, la storia che aveva posto quelle tensioni di sensualità e di desiderio nel mio petto”.

Due giorni dopo Cleaver ebbe una sorta di crisi durante la quale: “mi scagliai delirando...contro le donne bianche in particolare” arrivando alla conclusione che “come questione di principio, era d'importanza fondamentale per me avere un atteggiamento antagonistico e spietato verso le donne bianche. Il termine fuorilegge mi piacque...”.
Delirante la “soluzione” individuata da Cleaver: “Diventai uno stupratore”. Un caso clinico o forse anche peggio.
Per giustificare tali impulsi Cleaver ricorse strumentalmente all'ideologia. Comunque in linea con “una corrente di pensiero diventata di moda fra intellettuali e scrittori neri di sesso maschile verso la fine degli anni Sessanta e accettata con stupefacente entusiasmo da radicali bianchi maschi e dall'establishment intellettuale bianco come una scusa perfettamente accettabile dello stupro commesso da uomini neri. La chiave di questa pronta accettazione della tesi di Cleaver è ovvia. La colpa, a suo modo di vedere, era delle donne bianche” (pag. 306 di “Contro la nostra volontà” ed. 1976).

Purtroppo pare che all'epoca Cleaver fosse in folta compagnia.
Sempre da Susan Brownmiller:
“Lo stesso Cleaver cita una poesia di LeRoi Jones (Imamu Amiri Baraka): “Sorgi, nero nichilismo dada. Stupra le ragazze bianche. Stupra i loro padri. Taglia le gole delle loro madri,” e commenta freddamente: “Le Roi esprime i duri fatti della vita” (da edizione italiana del 1976 del libro di Brownmiller a pag. 306-307).
Apparentemente meno brutali, ma forse più subdole e pericolose, le teorie di un sociologo nero, Calvin C. Hernton. Per Susan Brownmiller il pensiero di Hernton “ implica che il libero accesso alle donne bianche, a qualsiasi donna, sia una sorta di inalienabile diritto maschile che è stato negato in modo disumano ai neri”(pag. 307).
Hernton scriveva che “un negro è più adatto di chiunque altro a soddisfare le fantasie di stupro e di martirio della donna bianca” (vedi in: Sex and Racism in America, 1966)

E torniamo a Cleaver la cui “carriera di stupratore” venne bruscamente interrotta soltanto dall'arresto. In precedenza “per affinare la mia tecnica e il mio modus operandi, cominciai a far pratica con le ragazze nere del ghetto...”. Aggiungendo che non venne mai arrestato per lo stupro di una donna nera in quanto agiva in una zona ad alto tasso di criminalità. Ma il suo scopo rimaneva quello originario: stuprare donne bianche. E quindi “...quando mi considerai abbastanza abile, attraversai i binari e andai in cerca di preda bianca”.

A questo punto il suo delirio di onnipotenza esplodeva:
“Lo stupro è un atto insurrezionale Mi estasiava sfidare e calpestare la legge dell'uomo bianco, il suo sistema di valori, e violare le sue donne...e questo, credo, era l'atto che più mi soddisfaceva perché provavo un forte risentimento per il fatto storico di come l'uomo bianco aveva usato la donna nera. Sentivo che stavo prendendo la mia vendetta”.
Sorvolando elegantemente su come lui aveva trattato le donne nere, in veste di apprendista stupratore.
A distanza di anni, in una intervista a Playboy ribadiva che “lo stupro fu semplicemente una delle strane forme che la mia ribellione prese a questo stadio. Quindi fu probabilmente una combinazione di utile e dilettevole”.
E' assai probabile – a mio avviso - che di questi tempi uno così andrebbe ad ingrossare i ranghi dello Stato islamico.
Chiudo e confermo la mia impressione. Almeno in Europa, tra quanti giustamente solidarizzavano con le Pantere Nere pochissimi in realtà avevano veramente letto Soul on Ice e relative schifezze.

Resta comunque una perplessità. Sicuramente il libro di Susan Brownmiller venne letto da molte femministe anche se in epoca successiva al '68. Come mai l'informazione non circolò nei movimenti? O forse i vasi non erano così comunicanti come credevamo? E' anche possibile che chi leggeva il libro della Brownmiller nella seconda metà degli anni settanta non fosse più in grado di identificare Cleaver come un riferimento della generazione ribelle precedente. Chissà.

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Employees at the Zarfati Garage in Mishur Adumim vote to strike on July 22, 2014. (Photo courtesy of Ma’an workers union)

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