Tra l'italiano povero tinto di toscano e quello approssimativo delle rime sanremesi vince quello basico e incredibilmente ironico di Francesco Totti. Che è l'italiano mentale a cui questo festival cerca di ambire
Le accuse di Michele delineano la percezione largamente diffusa tra i 25-35enni di un sistema dove, per quanto ti dai da fare, non è detto che tu ce la faccia ("Mi è passata la voglia: non qui e non ora"). Troppo spesso si tace che un lavoro precario rende tendenzialmente le relazioni sociali a loro volta precarie, quelle sentimentali pure ("l'altro genere evidentemente non ha bisogno di me"). Come pure le proprie convinzioni. E, a volte, anche le proprie azioni. Come quella di Michele.
L'eco che ha avuto la lettera di Michele mi ha colpito più delle parole dello stesso Michele. Mi ha colpito il fatto che moltissimi miei coetanei abbiano potuto identificarsi in quelle parole piene di rabbia, rassegnazione e pessimismo cosmico. Perché un conto è arrabbiarsi per la mancanza di lavoro e fare i conti con la frustrazione di non poter realizzare le proprie aspirazioni, un altro conto è accettare quella lettera disperata come manifesto di una generazione.
Serve una solidarietà che provi a scalfire quel muro di indifferenza o, peggio, di paternalismo in cui ci si imbatte quando si cercano di sottolineare le storture e le diseguaglianze di quest'epoca difficile. Altrimenti si rischia solo di avere qualche grido nel silenzio che nulla può cambiare.
Non sempre la vita ti fornisce la risposta giusta, o le "condizioni" in questo caso, alle volte devi semplicemente farti carico delle sconfitte, delle frustrazioni delle porte che ti vengono sbattute in faccia senza alcun rispetto e continuare a cercare il tuo posto nel mondo. Con questo non mi arrogo il diritto di giudicare le scelte e le dinamiche personali che hanno spinto Michele, nel pieno dell'età, a porre fine alla sua esistenza. Eppure non posso fare a meno di essere in contrasto con i suoi ideali.
Il mondo fuori non andava più bene al mondo dentro Michele. Quella terra di mezzo nella quale i sogni traditi, gli amori persi, l'assenza di punti di riferimento coesistono, era ormai piena di fantasmi.
Viviamo un momento complesso: siamo stanchi ancor prima di iniziare le nostre battaglie. Partiamo sconfitti, "tanto alla fine non cambia niente". Sbraitiamo sui social network dal divano di casa. La nostra generazione ha deciso di fermarsi. Così come ha fatto Michele in fondo. In un'epoca dove devi schierarti tra i "perdenti" o i "vincenti" di questa società, io sto ancora "costruendo" la mia risposta. Io, sono ancora in corsa.
Michele, nella sua ultima lettera prima del suicidio, scrive di non riconoscere come sua la realtà di oggi. Per noi ventenni invece è diverso, noi questa realtà la conosciamo benissimo e rassegnatamente la riconosciamo come nostra.
Tutti a parlare di rabbia, di cambiamento, di necessità di dire basta. Siamo la generazione sempre in rete che non sa fare rete, che non sa farsi sentire. Oggi urleremo vendetta, domani non cambierà niente.
Le parole di Michele sono state le mie parole. La sua storia, la mia storia. La sua frustrazione, la mia frustrazione. Il suo dolore, il suo grido di sfiducia sono stati il mio dolore, il mio grido di sfiducia. L'epilogo, differente.
A volte, senza ideologismi, bisogna andare contro la retorica dominante. Il disagio sociale è qualcosa contro cui combattere, ma bisogna affermare con forza il suicidio di michele non è un gesto politico. Il suicidio non lo è mai. Dalla lettera di Michele si evince una personalità in terribile sofferenza, da quando è piccolo. Un soggetto, ahinoi, vulnerabile sul quale il contesto esterno ha tragicamente terreno fertile.
Michele non si è soltanto scontrato contro la precarietà e lo sfruttamento cinico del mondo del lavoro, ma contro le ipocrisie dei cantori della libertà individuale. Che tale non è affatto, poiché si risolve nell'individualismo di una mediocre sopravvivenza. Una libertà fittizia e truffaldina. Eppure bisognerebbe ribellarsi a questa condizione. Non possiamo accettare questa sconfitta. La ricostruzione della politica, come capacità di cambiamento della società, deve partire da qui.
Proporzionale con collegi uninominali e premio di governabilità. Una soluzione che manda in soffitta l'esito immediato delle urne: lo chiamano inciucio ma più sobriamente è la democrazia.
La lettera di Michele è avvolta nell'illusione - o speranza, ancora una volta il tragico gioco delle prospettive - che queste parole non cadano nel vuoto. Ma la realtà è un'altra: queste parole verranno inghiottite dalla cronaca, dalla routine che è la vita, dall'egoismo che ci naviga intorno. Queste parole scompariranno. Resterà il dolore degli amici, il dolore dei genitori. Qualche ricordo.
Sull'Europa il Partito Democratico è chiamato alla sfida più grande e difficile degli ultimi cinquant'anni. Un congresso serio e profondo, per confrontarci su quale Europa vogliamo, senza slogan e con un pensiero lungo. A più velocità? Non sono convinto sia la strada giusta. Oggi alla politica è chiesto coraggio. Ci sono già troppe velocità: dalla moneta per alcuni, a Schengen per altri, alla Difesa con visioni diverse, dall'unione bancaria all'immigrazione, dal mercato unico al fisco, al welfare su cui ognuno fa quel che gli pare.
L'Unione politica non è la panacea di tutti i mali. È lo spazio comune per fare politica e per esercitare una vera sovranità, capace di rispondere alle minacce di Isis, Putin o Trump, di organizzare l'integrazione e l'assistenza di chi ha diritto a richiederla, di battere i cambiamenti climatici. L'Ue è un progetto da riconquistare.
Dobbiamo fare in modo che il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma diventi l'occasione per rilanciare il progetto di un'unione federale con un Parlamento europeo forte e con competenze ben definite. Si deve trovare un equilibrio tra l'Unione Europea e gli Stati membri. L'Europa deve prendere decisioni vere su questioni importanti, ma molti altri aspetti devono essere restituiti ai governi nazionali.
Chi vuole davvero sfasciare l'Europa unita, che è stata sino a ora un grande riferimento politico e culturale dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, è solo ed esclusivamente Vladimir Putin. L'asse Putin-Le Pen potrebbe essere quello che metterebbe fine per sempre al sogno europeo.
Quattordici ritratti - intensi e spregiudicati - di altrettante persone completamente diverse tra loro, ma tutte accomunate da una tristezza di fondo e da una continua e disperata voglia di cercare qualcosa, sia esso il successo come un ingresso, l'attenzione o il sesso, ma soprattutto l'amore, nelle sue forme ed espressioni più varie. Quelle di Ricci sono quattordici pungenti storie di narrativa.
Perché vivere, è vero, non è un dovere. È un tentativo costante di far fronte a tutto nel migliore dei modi possibili. È una scelta: vado avanti o mi fermo? Michele si è fermato ha scelto di fermarsi. Ma la colpa non è del ministro Poletti, non è del lavoro che manca o dell'amore che latita. Non si tratta di distribuire colpe, ma di assumersi responsabilità. Non può essere che una lettera da cui trapela la sconfitta di un essere umano diventi la bibbia su cui decodificare la sua generazione.
Molte istituzioni internazionali e paesi come gli Usa sembrano essere accanto al popolo ucraino, ma a oggi il conflitto non sembra cessare, più di 1.6 milioni di persone sono registrate come sfollati all'interno dell'Ucraina e il silenzio su questo conflitto, che ormai dura da anni, regna sovrano. Il 19 Luglio è tuttavia lontano, ma Enjoy the silence dei Depeche Mode è decisamente musica di tutti i giorni.
Nell'epoca del trumpismo assistiamo allo sdoganamento di sentimenti di intolleranza nei confronti delle minoranze e, favorendo i vari successi elettorali delle élite populiste, il pubblico sembra rendersi viepiù anestetizzato verso gli ormai quotidiani sfoghi e intemperanze al limite della xenofobia riducendo i freni inibitori della pericolosità del fenomeno.