Fra meno di venti giorni comincia il Festival di Sanremo, nel momento peggiore di un terremoto che sta devastando il cuore del Paese. Che senso ha cantare per una settimana, facendo finta che nulla sia sia successo? Forse basterebbe immaginare di trasferire per una volta il Festival proprio lì, in mezzo a quella gente che si sbatte da mesi per cercare di sopravvivere e una nuova identità. Sanremo anche dentro un tendone, perché no?
La raccomandazione di mia mamma, che buttava là con noncurante pessimismo cosmico era: "Hai la biancheria in ordine, casomai ti succede qualcosa e finisci all'ospedale". Memore del materno ammonimento io continuo con indefesso ardore ad assicurarmi che il mio intimo, seppur raramente intonato (considero meritevoli di Nobel le donne che hanno sempre mutande e reggiseno in pendant), sia in perfetto stato.
A che serve la Rai? Il giorno dopo una ricca e controversa ondata di nomine di direttori di rete, la domanda è più che mai pertinente. Serve a fare servizio pubblico? Ma il governo Renzi lo sa? E soprattutto che ne pensa? Manca poco - una decina di settimane - al 6 maggio e proprio quel giorno decade la concessione di servizio pubblico alla Rai.
E' stato il festival che ha provato ad accontentare tutti, non con una vera rivoluzione musicale, non con un'autentica conduzione spiazzante, non con una ricostruzione dal basso verso l'alto. Ma con tanti, piccoli contentini per tutte le categorie di pubblico. Insomma, per amor di sintesi, un festival renziano
Tutti amano Sanremo e quell'amore vince quando accetti piccole canzoni di piccoli cantanti che sembrano molto vecchi anche se molto giovani, e ti rendi conto che nessuna di queste verrà ricordate quando quei giovani diventeranno vecchi per davvero
L'ansia che arrivi davvero Elton John sul palco vestito da Monica Cirinnà imbracciando una pletora di bambini comprati a Piazza Eroi Sanremesi è tale che tutta la prima serata di questa sessantaseiesima edizione ne è condizionata nel profondo
I musicanti vogliono tutti partecipare a questa messa in scena dopo averla snobbata un anno intero, i giornalisti non vedono l'ora che escano i nomi per dire che vengono presi sempre i soliti o quelli dei talent "senza gavetta".
Se queste giovani proposte sono un antipasto di quello che sarà la qualità musicale, si fa per dire, di Sanremo, è fin troppo facile prevedere un flop con ascolti in picchiata e un'auspicabile rivolta per sentirsi presi per buoi inanimati con proposte di plastica e senza senso. Ma questa, ca va sans dire, è un'opinione. Chi vuole, può ascoltare per credere e magari gongolare al vecchio amato beat dei quattro quarti.
Che accadrebbe, a esempio, se il Festival della canzone diventasse quello che negli Stati Uniti sono i Grammy Awards? Cioè gli Oscar della musica, tutta la musica. Riconoscendo, finalmente, cittadinanza a generi curiosamente fruiti dagli italiani ma mai rappresentati: il jazz, la new age, l'hip-hop, la dance, il rock, le colonne sonore, tanto per fare qualche esempio.
Mi chiedo chi sia davvero Conchita, mentre cammino verso il lussuoso albergo costruito a fianco alla mensa dei poveri. Penso che tutto sommato è una coincidenza, uno dei tanti contrasti di questa Milano da Expo. Così mi aspetto la diva, ma solo fino a un certo punto. Entro nella saletta di specchi e lei è lì, sorride, mi accoglie come un amico e la butta subito sullo scherzo del nostro punto comune più evidente, la barba.