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Hurricane Trump rischia di stravolgere la lotta al cambiamento climatico

11/11/2016 16:31 CET | Aggiornato 11/11/2016 16:31 CET
agf

Hurricane Trump potrebbe fare danni anche nella lotta ai cambiamenti climatici. Il presidente tutore di lobby di banchieri e palazzinari, finanzieri e speculatori, così venerato dai nostri populisti e da Beppe Grillo, proverà a cancellare la legacy lasciata alla storia da Barak Obama che ha portato gli Usa, secondo paese al mondo killer dell'atmosfera dopo la Cina, sulla prima linea di combattimento per raffreddare la febbre del pianeta.

Il timore di un clamoroso dietrofront è nel fiato sospeso dei rappresentanti del mondo riuniti in questi giorni a Marrakech nella Cop22, la conferenza Onu sul clima, che guardano agli Stati Uniti calcolando i danni di un abbandono ufficiale della ratifica che segnerebbe l'inizio della demolizione dell'accordo di Parigi siglato a fatica a metà dicembre 2015. Gli Usa del resto hanno sempre determinato le sorti dei negoziati climatici, a lungo da sabotatori e frenatori.

La scelta negazionista è stata peraltro ampiamente annunciata dal nuovo inquilino della Casa Bianca. Il magnate newyorkese considera il riscaldamento globale più meno alla stregua di un complotto orchestrato dalla Cina: "È una bufala inventata dai cinesi per minare la competitività dell'industria americana... in realtà il pianeta si sta congelando". Parole in libertà che fanno il paio con quelle del suo precursore italiano Silvio Berlusconi che da presidente del consiglio il 20 maggio 1994 esprimeva sul tema questo concetto alla Camera dei deputati: "Il nostro Paese comincerà a intiepidirsi in un lasso di tempo pari a quello che ci divide addirittura dalla morte di Caio Giulio Cesare, circa duemila anni; quel che è certo è che credo sia inutile agitarsi troppo perchè un po' di tempo ce l'abbiamo".

Il negazionismo fortunatamente da tempo è scomparso dai radar scientifici, soprattutto dopo lo scandalo di studi e ricerche pagati sottobanco e per anni dalle industrie petrolifere come attività di depistaggio. Grandi bugie alimentate a suon di milioni di dollari soprattutto dalla Exxon, la Big Oil da mezzo triliardo di dollari di entrate l'anno. Con un'escalation dal 1997, in coincidenza con gli Accordi di Kyoto, cercarono di mettere in dubbio l'esistenza del riscaldamento globale anche se, come rivelò il New York Times nell'aprile 2012, già dal 1995 le grandi imprese petrolifere avevano tra le mani dettagliati rapporti scientifici con le prove dell'effetto serra causato dall'attività umana "ben fondate e incontestabili".

Trump potrebbe cavalcare il negazionismo e fare piazza pulita delle politiche industriali green e ambientali negli otto anni di Obama. Nel suo staff si dà per certo la richiesta al Congresso, controllato dai repubblicani, di mandare all'aria gli obiettivi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica ratificati dagli Usa con altri 102 paesi. È vero che nessuno può recedere dall'accordo alla Cop21 prima di 4 anni, ma Trump e i suoi potrebbero comunque disattivarlo, e non sono previste sanzioni Onu.

Il nuovo presidente potrebbe abolire i piani per la chiusura delle vecchie centrali a carbone di Obama e rilanciare l'estrazione off-shore di petrolio. Non si farà troppi scrupoli, essendo da sempre sponsor number one della rinascita dell'industria carbonifera inquinante statunitense, anche se il settore è ormai obsoleto e sarà progressivamente sostituito dall'alta capacità di estrazione di gas (carburante di transizione verso le rinnovabili).

Proverà anche a cancellare le rigorose misure anti inquinamento del Clean power plan dell'Environment protection agency, l'Agenzia federale per l'ambiente e ad ammorbidirne le funzioni di controllo con la nomina ai vertici di un fiero negazionista climatico come Myron Ebell, il direttore del Center for Energy and Environment del Competitive Enterprise Institute, finanziato guarda caso dalla ExxonMobil.

Punterà sul petrolio permettendo l'invasiva tecnica del fracking e sull'oleodotto Keystone XL dal Canada alle raffinerie del Texas, mandando al diavolo le tecnologie green individuate come intralcio e non come economia del presente e del futuro e sulle quale gli Stati Uniti mostrano una forte capacità industriale.

Sarebbe un'inversione nelle sorti di una partita globale iniziata sulla base di tutte le previsioni scientifiche, a partire dall'Intergovernmental Panel on Climate Change, il panel indipendente di 2000 scienziati di 160 Paesi del mondo istituito dalle Nazioni Unite nel 1988. È dell'ottobre 2006 il Rapporto Stern, commissionato dal governo britannico e coordinato dall'economista Nicholas Stern già responsabile economico della Banca Mondiale, che con numeri alla mano dimostrava che se i mutamenti climatici non saranno frenati costeranno così tanto da mettere in ginocchio l'economia mondiale con una somma rilevante del Pil mondiale, tra il 5 e il 20% (5,5 trilioni di euro) bruciata per gestire i danni futuri provocati dall'effetto serra e dalle mancate reazioni di adattamento e mitigazione all'evoluzione rapida dell'aumento medio delle temperature con l'effetto collaterale dei disastri climatici con una sfilza di nuove emergenze. L'unica speranza è che i suoi amici lupi di Wall Street questo trend lo spieghino per bene a Trump.

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