«Nello specchio nero dell'anarchismo»
André Breton
da finimondo.org
A cinquant'anni esatti dalla scomparsa di André Breton,
fondatore ed animatore di quel surrealismo la cui retorica politica
marxista non riuscì mai a nascondere del tutto l'essenza libertaria,
riproponiamo qui due suoi testi apparsi negli anni 50 sul settimanale
anarchico che vedeva la partecipazione dei surrealisti. Nel primo testo
Breton ricorda senza mezzi termini come, nonostante una lunga e
brontolante militanza a fianco della sinistra rivoluzionaria, è
nell'anarchismo che il surrealismo affonda le proprie radici; il secondo
testo è un suo pubblico intervento in solidarietà con alcuni anarchici
all'epoca imprigionati e condannati in Spagna. Dalla loro lettura fuori
tempo si potranno forse scorgere riferimenti senza tempo: sia
sull'urgenza di «risalire ai princìpi» che hanno permesso ad un ideale umano di costituirsi — laddove «si incontrerà l'anarchismo ed esso soltanto» — e sia su «come
in ogni azione di resistenza, sarebbe imperdonabile voler dissociare
coloro che hanno agito con il più grande coraggio da coloro che l’accusa
mischia ai primi per colpire in essi la semplice opposizione passiva al
regime».
***
La Torre chiara
Dove il surrealismo si è per la prima volta riconosciuto, molto
prima di definirsi a se stesso e quando era solo una libera associazione
fra individui che rifiutavano spontaneamente e in blocco le costrizioni
sociali e morali della loro epoca, è nello specchio nero
dell'anarchismo. Fra gli alti luoghi dove ci ritrovavamo, in questo
indomani della guerra del 1914, e la cui potenza di adunata era a prova
di tutto, si annoverava la fine della Ballade Solness di Laurent Tailhade:
Colpisci i nostri cuori andati in brandelli
Anarchia! o portatrice di fiaccola!
Allontana la notte! schiaccia i vermi!
E innalza al cielo, foss'anche con le nostre tombe,
La Torre chiara che sulle onde domina!
In quel momento il rifiuto surrealista è totale, assolutamente
inadatto a lasciarsi canalizzare sul piano politico. Tutte le
istituzioni su cui poggia il mondo moderno e che hanno appena dato la
loro risultante nella Prima Guerra mondiale sono da noi considerate
aberranti e scandalose. Per iniziare, è contro tutto l'apparato di
difesa della società che ce la prendiamo: esercito, «giustizia»,
polizia, religione, medicina mentale e legale, insegnamento scolastico.
Sia le dichiarazioni collettive che i testi individuali dell'Aragon
d'allora, di Artaud, di Crevel, di Desnos, dell'Éluard d'allora, di
Ernst, di Leiris, di Masson, di Péret, di Queneau o miei attestano la
comune volontà di farli riconoscere come flagelli e di combatterli in
quanto tali. Ma per combatterli con qualche possibilità di successo,
bisogna attaccarli nella loro armatura che in ultima analisi è d'ordine logico e morale:
la pretesa «ragione» che ha corso e che con etichetta fraudolenta
ricopre il «senso comune» più scalcagnato, la «morale» falsificata dal
cristianesimo mirante a scoraggiare ogni resistenza contro lo
sfruttamento dell'uomo.
Un enorme fuoco ha covato allora — eravamo giovani — e credo di
dover insistere sul fatto che esso si è costantemente ravvivato con ciò
che si sprigiona dall'opera e dalla vita dei poeti:
Anarchia! o portatrice di fiaccola!
che essi non si chiamino più Tailhade, ma Baudelaire, Rimbaud,
Jarry, che tutti i nostri giovani compagni libertari dovrebbero
conoscere come tutti dovrebbero conoscere Sade, Lautréamont, lo Schwob
delle Parole di Monelle.
Perché una fusione organica non ha potuto operarsi in quel momento
fra elementi anarchici propriamente detti ed elementi surrealisti? Dopo
venticinque anni, me lo sto ancora domandando. Non v'è dubbio che l'idea
di efficacia, che sarà lo specchietto per le allodole di tutta
quest'epoca, ha deciso altrimenti. Quanto è stato considerato come il
trionfo della rivoluzione russa e l'avvento di uno Stato operaio ha
comportato un grande cambiamento di punto di vista. La sola ombra sul
quadro — che doveva precisarsi come macchia indelebile — consisteva
nella repressione dell'insurrezione di Kronstadt il 18 marzo 1921. Mai i
surrealisti riuscirono a passarci sopra del tutto. Non di meno restava
che verso il 1925 solo la III Internazionale sembrava disporre dei mezzi
idonei a trasformare il mondo. Era possibile credere che i segni di
degenerazione e di regressione già facilmente osservabili ad Est fossero
ancora scongiurabili. I surrealisti hanno vissuto allora sulla
convinzione che la rivoluzione sociale estesa a tutti i paesi non poteva
mancare di promuovere un mondo libertario (alcuni dicono un mondo
surrealista, ma è lo stesso). All'inizio tutti lo pensavano, compresi
quelli (Aragon, Éluard, ecc.) che in seguito sono decaduti dal loro
ideale originario fino a farsi una carriera invidiabile (agli occhi
degli uomini d'affari) nello stalinismo. Ma il desiderio e la speranza
umana non potranno mai essere al riparo di chi tradisce:
Allontana la notte! schiaccia i vermi!
È noto a sufficienza quale spietata devastazione sia stata fatta di
queste illusioni durante il secondo quarto di questo secolo. Con
spaventosa derisione, al mondo libertario che si sognava si è sostituito
un mondo in cui la più servile obbedienza è di rigore, dove vengono
negati i diritti più elementari all'uomo, e dove ogni vita sociale ruota
attorno allo sbirro e al boia. Come in tutti i casi in cui un ideale
umano giunge al colmo della corruzione, il solo rimedio è quello di
ritemprarsi nella grande corrente sensibile in cui ha preso nascita, di risalire ai princìpi
che gli hanno permesso di costituirsi. È al termine stesso di questo
movimento, oggi più necessario che mai, che si incontrerà l'anarchismo
ed esso soltanto — non la caricatura che se ne presenta o lo spauracchio
che se ne fa, ma quello che il nostro compagno Fontenis descrive «come
il socialismo stesso, ovvero questa rivendicazione moderna per la
dignità dell'uomo (la sua libertà quanto il suo benessere): il
socialismo, concepito non come la semplice risoluzione di un problema
economico o politico, ma come l'espressione di masse sfruttate nel loro
desiderio di creare una società senza classi, senza Stato, dove tutti i
valori e le aspirazioni umane possano realizzarsi».
Questa concezione d'una rivolta e d'una generosità indissociabili l'una dall'altra e, non dispiaccia ad Albert Camus, illimitabili l'una come l'altra,
i surrealisti oggi la fanno propria senza riserve. Scaturita dalle
brume di morte di quest'epoca, essi la considerano la sola capace di far
risorgere ad occhi da un momento all'altro più numerosi
La Torre chiara che sulle onde domina!
[Le Libertaire, n. 297, 11 gennaio 1952]
*
Discorso di Wagram
Compagni,
se c’è nel mondo un luogo in cui il cuore della libertà continua a
battere, se c’è un luogo da dove i suoi battiti ci giungono meglio
scanditi che da qualunque altra parte, sappiamo tutti che questo luogo è
la Spagna. Entusiasma pensare che quindici anni di dittatura non
l’hanno spezzata.
In occasione degli scioperi di Barcellona del marzo 1951, si è
potuto constatare che non soltanto non era diminuita affatto la
combattività, tanto negli ambienti operai che in quelli universitari, ma
che un magnifico contagio si estendeva subito all’insieme della
popolazione, isolando d’un tratto i detentori e profittatori del regime
nella volontà di espellerli come un corpo estraneo al paese.
Tutti coloro che hanno parlato di questi scioperi, anche senza
simpatia profonda per la lunga sofferenza del popolo spagnolo, sono
rimasti colpiti dalla loro tendenza ad un allargarsi estremamente rapido
come una macchia d’olio. Evidentemente si trattava di un fenomeno che
smentiva tutti i loro prognostici. Essi non si rendono conto come un
semplice boicottaggio di tram, deciso a causa di un aumento di tariffa
sui trasporti, abbia potuto diffondersi con tale ampiezza. Passavano di
sorpresa in sorpresa: la polizia aveva stranamente tardato a reagire,
l’esercito era rimasto in aspettativa; uno sciopero che impegnava
migliaia di operai aveva potuto essere iniziato per telefono, con un
ordine, evidentemente apocrifo, della falange. Una manifestazione di
simile portata (i corrispondenti della stampa concordarono
nell’attribuirgli importanza decisiva) pare rendere bene il clima di
quelle giornate quasi insurrezionali.
Si è potuto dire che, dal principio alla fine del movimento, la sua «unità di stile» gli era stata data dall’humour.
Così, contrariamente a ciò che ci si poteva aspettare, dati i mezzi
coercitivi su cui poggia una dittatura, un simile movimento si era
rivelato possibile e sulla strada del suo generalizzarsi e aveva potuto
appena appena essere frenato.
In quegli avvenimenti, il fatto ancora più significativo fu che gli scioperanti ebbero una vittoria integrale.
Ricordiamoci che le compagnie dovettero rinunciare ad aumentare il
prezzo del biglietto del tram, che il governatore e il capo della
polizia di Barcellona furono sostituiti, e così pure il dirigente
provinciale dei sindacati, fantoccio autorizzato da Franco.
Soprattutto ricordiamo che le sanzioni prese in occasione della
rivolta catalana dovettero essere tolte, e gli scioperanti ottennero di
essere pagati mediante ore supplementari.
C’è in questo un fatto nuovo che non sarà mai troppo meditato. Non
si può che vedervi una grande incrinatura di tutto l’insieme della
struttura dittatoriale.
Si può ammazzare e avvilire tutto ciò che può essere avvilito, si
può brandire di volta in volta il crocifisso e il mitra, affamare un
popolo e privarlo di ciò che rimane di comunità umana, ma non perciò si
riesce a cancellare l’anima di questo popolo, così com’essa si è
incarnata durante la mia infanzia nella persona di Francisco Ferrer e
quale si è ritemprata nel valore leggendario della C.N.T. e della F.A.I.
Alcune, tra le cause immediate dei moti di Barcellona, sono state individuate senza fatica. Paul Parisot, in Preuves, insiste sulla miseria delle masse, sull’asfissia economica della Spagna.
Il Fomento de la produción, secondo organo economico
spagnolo (e del padronato catalano) riconosceva nel novembre 1950 che
l’operaio catalano per nutrirsi aveva bisogno di 1/2 del suo salario.
Il corrispondente di United Press a Parigi segnalava,
nell’ultima settimana di dicembre, un aumento del 30% sui prodotti di
prima necessità, come il pane, lo zucchero e le uova. A questo, egli
diceva, si aggiunge l’esodo in massa dalle campagne verso le città,
particolarmente verso Barcellona, esodo che aumenta la miseria nella
città dove regna di già la disoccupazione e provoca una diminuzione di
terra coltivata.
Queste considerazioni, in realtà davvero essenziali, hanno un solo
difetto: lasciano da parte quella fiamma oscura, specifica del genio
spagnolo che tramite Goya si è trasmessa, senza diminuzioni, dal
Cervantes di Numanzia a Federico Garcia Lorca.
È questa fiamma che mi commuove sempre di ritrovare negli occhi dei
nostri compagni spagnoli in esilio, incontrati qui o nel mondo. Ci sono
stati grandi navigatori nella loro storia ed io sono persuaso che essi
raggiungeranno il punto verso il quale non hanno mai cessato di
dirigersi, nonostante tutti i venti contrari.
Non dimentichiamolo: il mostro che, per ora, ci tiene ancora in suo
potere si è fatto gli artigli in Spagna. È là che ha incominciato a
fare fruttare i suoi veleni: la menzogna, la demoralizzazione, la
soppressione. È là che, per la prima volta, ha fatto luccicare le canne
dei fucili al mattino presto e le sue camere di tortura al calar della
notte. Gli Hitler, i Mussolini, gli Stalin hanno avuto là i loro
laboratori sperimentali, la loro scuola di lavori pratici. I forni
crematori, le miniere di sale, le scale sdrucciolevoli della N.K.V.D.,
l’estendersi a perdita d’occhio dei campi di concentramento, sono stati
omologati a partire da là. È dalla Spagna che parte il dissanguamento
che testimonia di una ferita potenzialmente mortale per il mondo. È in
Spagna che, per la prima volta, il diritto di vivere liberi è stato
colpito.
Compagni, parlando in questo modo ho coscienza di non allontanarmi
da ciò che ci riunisce qui questa sera. Undici dei nostri compagni di
Spagna sono, da ora, destinati alle pallottole franchiste. Noi sappiamo
che la maggior parte di essi è in prigione da quasi due anni: è evidente
che in questo modo Franco tasta l’opinione internazionale per sapere se
essa sopporterà, su una scala molto più grande, la repressione del
sollevamento del febbraio-marzo 1951 che ha fatto, si valuta, parecchie
migliaia di arresti.
Quand’anche noi non conoscessimo la natura del delitto che espone
alla morte i nostri compagni, è chiaro che in nessun modo potremmo
riconoscere una sentenza pronunciata da ufficiali fascisti, dopo un
simulacro di difesa fatta da altri fascisti, e questo a parte lo
scandalo che c’è sempre nel fatto che un individuo, paludato da
magistrato, domandi ed ottenga «la testa degli altri».
Ma la natura del delitto noi la conosciamo e sappiamo anche sotto
quale legge scellerata esso cada, la «legge della repressione contro il
banditismo ed il terrorismo», decretata il 18 aprile 1947. È sufficiente
riflettere un istante su queste parole — banditismo e terrorismo — per
riconoscere che sono applicabili abusivamente a qualunque attività di
resistenza, come per esempio quella che da noi si è opposta al fascismo
tedesco.
Non è meno evidente che i mezzi di lotta contro questa ideologia,
dal momento che essa ha usurpato il potere, non potrebbero essere
diversi, sia che ci situiamo nella Francia occupata di qualche anno fa, o
nella Spagna di oggi, imbavagliata, legata, ma non vinta.
Questi mezzi abbiamo imparato a conoscerli e non abbiamo la memoria
abbastanza corta per esigere che siano pacifici. È questa, e solo
questa, l’occasione di dire, rivolgendoci ai giudici di Siviglia e di
Barcellona: «Che i signori assassini incomincino».
Altri, dopo di me, protesteranno questa sera contro la serie di
iniquità che hanno segnato lo sviluppo dell’affare di cui ci occupiamo.
La famosa tecnica così detta dell’«amalgama» che dei processi come
quelli di Mosca hanno perfezionato, permette, una volta di più, di
riunire sotto lo stesso capo d’accusa dei compagni i quali non negano i
fatti di cui sono incolpati e dei compagni che tali fatti non hanno per
niente commesso, senza che ci sia possibile distinguere gli uni dagli
altri, nelle condizioni di soffocamento realizzato (processo a porte
chiuse, informazioni ridotte a cinque righe nei giornali di Barcellona e
di Madrid).
Ma non è questa la questione: la nostra solidarietà va
indistintamente a tutti loro. Come in ogni azione di resistenza, sarebbe
imperdonabile voler dissociare coloro che hanno agito con il più grande
coraggio da coloro che l’accusa mischia ai primi per colpire in essi la
semplice opposizione passiva al regime.
Come fa osservare Solidaridad Obrera, organo della C.N.T.
spagnola in esilio, l’accusa di «banditismo» cade; d’altra parte, da se
stessa, se ci riportiamo a quel paragrafo del primo foglio riempito dal
giudice istruttore che sottolinea abbastanza il carattere
politico-sociale della persecuzione:
«Questi gruppi hanno perpetrato a Barcellona, che era l’oggetto
principale della loro attività, allo scopo di continuarvi con atti
criminali — qui gli occupanti nazisti non avrebbero parlato diversamente — la loro opera di perturbazione dell’ordine sociale.
In questo luogo hanno ricevuto l’appoggio dei membri della loro
organizzazione (la C.N.T.) che non soltanto ha messo al loro servizio
gli elementi di agitazione e dei gruppi organizzati ma ha loro procurato
delle informazioni.
Essi facevano, inoltre, del proselitismo per diffondere le idee
anarco-sindacaliste di azione diretta e trasmettere delle istruzioni ai
gruppi di azione».
Si tratta, come si vede, di quella stessa forma di resistenza al fascismo che è stata tenuta da noi in grande onore.
Soprattutto, compagni, guardiamoci dal dubitare dell’efficacia
della nostra protesta. Franco è ben lungi dal disporre di mezzi che
permettano dietro la «cortina di ferro» l’organizzazione di quei
processi spettacolari in cui gli stessi accusati vanno oltre i testimoni
di accusa e guardano con compiacenza il loro carnefice. Egli è
costretto ad agire nell’ombra e come abbiamo visto in occasione degli
scioperi di Barcellona, non è impossibile farlo indietreggiare.
Prima che sia troppo tardi — perché secondo le ultime notizie
sembra che i nostri compagni siano stati avvertiti dai loro falsi
avvocati che stavano per essere fucilati — esigiamo ad una sola voce la
revisione in piena luce dei processi di Siviglia e di Barcellona, con
dei veri avvocati che abbiano tutto il tempo di studiare la causa e
sotto la garanzia di osservatori stranieri.
A qualsiasi prezzo e con la massima urgenza, troviamo anche il mezzo di far giungere ai nostri compagni il nostro messaggio:
«A nome di tutti gli uomini liberi e di tutti coloro che aspirano soltanto a liberarsi, grazie.
Non cessate di sperare: siamo con il pensiero e con il cuore con voi.
Viva e gloria all’eroica C.N.T. spagnola».
[Le Libertaire, n. 305, 7 marzo 1952]