Vivere in un Limbo

Turbulence

Siamo intrappolati in una specie di limbo: non siamo né questo né l’altro. Da più di due anni il mondo è sconvolto da una serie di crisi interconnesse, che non danno l’impressione di potersi risolvere a breve termine. Le incrollabili certezze neoliberiste che ci hanno bloccati così a lungo sono collassate, ma nonostante tutto sembriamo incapaci di andare oltre. Ondate di rabbia e protesta sono esplose intorno ai vari aspetti della crisi, ma nessuna azione comune è riuscita a prendere consistenza. Il tentativo di uscire dalle paludi di un mondo in decadenza è inesorabilmente segnato da un senso di frustrazione generale permanente.

C’è una crisi della fiducia nel futuro che ci condanna ad un presente infinito e decadente, che è inerzia allo stato puro. Paradossalmente, nonostante i tumulti in questo tempo di ‘crisi’ in cui tutto sembra poter e dover cambiare, la storia sembra essersi fermata. Mancano la volontà e la capacità di affrontare davvero le molteplici dimensioni della crisi. Individui, industrie e governi tentano di proteggersi come possono aspettando che il ciclone finisca, quando tra un paio d’anni il mondo finalmente ritornerà quello di prima.

In tentativi di dare sostanza agli annunci di ‘germogli’ prendono per crisi ciclica quella che è una crisi epocale. Certo, quantità astronomiche di denaro hanno prevenuto il collasso definitivo del sistema finanziario, ma è anche vero che queste risorse non sono state stanziate per provocare il cambiamento, bensì per prevenirlo. Ci troviamo imprigionati in un limbo.

Crisi al centro

Eppure qualcosa è accaduto. Pensate all’ebbrezza di quei giorni sconvolgenti di fine 2008 quando tutto è successo così velocemente, quando i vecchi dogmi sono caduti come foglie d’autunno. Quei giorni erano reali e qualcosa lì è accaduto sul serio: i modi già sperimentati e testati di far funzionare le cose, ben rodati da circa 30 anni di neoliberismo globale, hanno cominciato a sballare e ciò che fino a quel momento era dato per scontato ha cominciato a perdere senso. C’è stato un cambiamento in quello che chiamiamo il centro o baricentro (middle ground) della società, ossia in quei discorsi e quelle pratiche che costituiscono la chiave di volta dell’arco politico.

Sicuramente non tutto avviene al centro, ma è ciò che assegna alle cose che gli ruotano intorno un determinato grado di rilevanza, di validità, o di marginalità. Si tratta del centro relativamente stabile attorno a cui tutto il resto viene valutato. Quanto più un’idea, un progetto o una pratica si trovano lontani dal centro esistente, tanto più probabilmente saranno ignorati dalla maggioranza, pubblicamente denigrati, squalificati o addirittura repressi. Quanto più essi si trovano vicini al centro, tanto più sarà loro possible essere incorporati – e pertanto anche in grado di influenzare il centro stesso. Il centro in un dato momento storico non viene deciso dall’alto come certe teorie della cospirazione lasciano immaginare. Esso emerge piuttosto da modi differenti di fare, di essere, di pensare e di parlare, e intrecciandosi si rafforzano a vicenda e creano il centro nella sua totalità. Con l’aumentare della coesione ‘dal basso’, il centro acquisisce anche la forza necessaria ad unificare ‘dall’alto’. In questo senso, le fondamenta del neoliberismo sono state costituite prima che all’edificio fosse dato il suo nome. D’altro canto, il momento dell’assegnazione del nome rappresenta un salto qualitativo, che indica il punto preciso in cui idee e pratiche politiche  disconnesse divengono identificabili come parti di un tutto.

Il thatcherismo nel Regno Unito e il reaganismo negli Stati Uniti hanno segnato momenti cruciali di questo tipo per ciò che aveva iniziato a costituirsi già da tempo, e che in seguito ha dominato il centro per più di trent’anni. Il neoliberismo stesso è stato una risposta alla crisi del centro precedente, vale a dire alla crisi del fordismo/keynesismo. L’era del New Deal e dei suoi vari omologhi a livello internazionale, coincise con la nascita di una classe operaia potentissima, cresciuta con l’idea che i suoi bisogni di base avrebbero dovuto trovare risposta nel welfare state, che i salari reali sarebbero cresciuti in maniera costante e che la sua situazione sarebbe migliorata progressivamente. Inizialmente il progetto neoliberista si costituì come l’attacco ad un proletariato troppo esigente e a quelle istituzioni dello stato in cui il vecchio compromesso di classe era incorporato. I benefici del welfare sono stati ritirati, i salari hanno ristagnato o si sono ridotti, e infine la precarietà è divenuta la condizione generale del lavoro.

Ma questo attacco ha avuto il suo prezzo. Il New Deal aveva integrato al centro potenti movimenti operai – i sindacati di massa – contribuendo così ad una lunga stabilizzazione della crescita capitalista. Esso aveva garantito salari abbastanza alti da assicurare che ciò che veniva prodotto da un sistema industriale diventato molto più produttivo – perché basato sulla catena di montaggio di Henry Ford e sull’organizzazione scientifica del lavoro di Frederick Taylor – potesse essere acquistato. Passo dopo passo il feroce attacco alle classi lavoratrici del Nord globale è stato controbilanciato da tassi di interesse bassissimi (credito vantaggioso) e accesso all’acquisto di beni di basso prezzo perché prodotti in aree del mondo dove i salari erano a livelli bassissimi (come in Cina). Al Sud globale si faceva intravedere la possibilità che un giorno avrebbe raggiunto uno standard simile a quello del Nord. In questo senso la globalizzazione neoliberista è stata la globalizzazione del sogno americano: diventa ricco o muori provandoci.

Chiaramente anche il neoliberismo si è basato su di un qualche tipo di accordo sociale, ma la nozione di patto o deal sociale contiene un significato diverso; infatti il modo neoliberista di attrazione/incorporazione è stato sostanzialmente differente da quello del fordismo-keynesismo. Quest’ultimo prevedeva forze collettive visibili e costituite che esprimevano la volontà dei sindacati e delle organizzazioni contadine; il neoliberismo invece ha funzionato più per slittamento rispetto al patto fordista originario: esso si è rivolto direttamente agli individui in quanto attori sociali chiave. Si è trattato di un centro che è sorto da desideri, discorsi e pratiche ‘devianti’ alla ricerca di percorsi diversi da quello intrapreso fino a quel punto (la paura che i sindacati fossero diventati troppo forti, l’insoddisfazione dovuta alla tetra uniformità delle cose, l’esistenza di pratiche para-statali di corruzione a compensare una vita iperregolata), e quindi segnati all’individualizzazione. Infatti il nuovo centro aspirava a creare un certo tipo di individuo, una sorta si imprenditore di sé stesso atomizzato i cui legami sociali e collettivi fossero subordinati al perseguimento del guadagno privato.

Crisi del comune

Oggi il deal neoliberista è vuoto e nullo; il centro sta slittando nuovamente. Abbiamo superato l’era in cui il credito a buon mercato, valori finanziari in crescita e prezzi in discesa potevano compensare i salari stagnanti. Quei giorni sono finiti ma nessun nuovo centro è ancora riuscito a configurarsi. Nessuno ha varato alcun nuovo deal con cui rimpiazzare il vecchio, anche per questo ci troviamo in un limbo.

Si consideri che patti sociali e centri della società non vanno mano nella mano. Un nuovo centro può emergere da un patto sociale, sia esso esplicito (come nel caso del New Deal degli anni ‘30) o implicito (come nel caso del neoliberismo) – e se questo è il caso, risulterà particolarmente stabile. Ma un nuovo centro del campo politico può anche emergere senza che ci sia un accordo sociale vero e proprio. Un centro non richiede lo stesso livello di consenso di un patto sociale; tale consenso è una condizione sufficiente ma non necessaria. Più che altro un centro implica sempre un processo di attrazione e incorporazione di quelle forze che potrebbero minacciarlo, e la cui misura è definita dai suoi stessi termini.

Stringere un patto sociale è equivalente ad accordarsi – più o meno coscientemente – su una tregua (temporanea) nel mezzo di una battaglia feroce. Un centro invece può anche emergere da un periodo di conflitto e contestazione – una guerra di attrito più prolungata. Nella situazione attuale molte cose sono al momento ignote. Certamente non possiamo predire la durata o gli esiti del conflitto sul nuovo senso comune della politica. Oltretutto non è nemmeno chiaro quali siano le parti in causa. Solo dopo che la lotta sarà iniziata sarà possibile capire chi è alleato con chi. E allora chi combatterà chi e su cosa? Quale sarà il terreno comune dei movimenti nelle lotte a venire?

Le nozioni di terreno comune (common ground) e di centro (middle ground) sono strumenti teorici. Li usiamo per nominare le intersezioni e le risonanze delle varie lotte, delle pratiche, dei discorsi, degli obiettivi e dei referenti. Nel movimento altermondialista dello scorso decennio, si trattava, da un lato di un No condiviso alla logica monopolista del neoliberismo, e dall’altro dell’accettazione di un molteplice alle varie alternative emergenti sull’economia, il comune e la socialità. Per molti anni, i movimenti hanno potuto incontrarsi e riconoscersi vicendevolmente sulla base del loro rifiuto comune al neoliberismo – senza dover negare le proprie differenze. Ma la frantumazione del centro neoliberista ha implicato anche la rovina del terreno comune radicata nell’antagonismo ad esso.

TERRENI IN MOVIMENTO

Dalla follia al mainstream?

Fino a poco tempo fa, chiunque avesse suggerito di nazionalizzare le banche sarebbe stato deriso come uno sciocco, come una persona incapace di comprendere le basi dell’economia nonché il funzionamento di un ‘mondo complesso e globalizzato’. La morsa dell’ortodossia neoliberista era così stretta che una tale idea sarebbe stata squalificata senza neppure dover presentare controdeduzioni. Eppure, da un anno a questa parte molti governi in giro per il mondo hanno di fatto nazionalizzato gran parte del settore finanziario, erogando enormi quantità di denaro pubblico anche alle istituzioni che sono rimaste in mano ai privati. Tali mutamenti nell’opinione mainstream si sono avuti anche in riferimento al clima e ai beni comuni.

Oggigiorno ogni politico ‘che si rispetti’ deve mostrarsi per lo meno preoccupato per il riscaldamento globale. I commons poi, a lungo un tarlo esclusivo della sinistra, sono anche loro entrati nel vocabolario di intellettuali e politici di centro: dal riconoscimento crescente dei ‘benefici pubblici’ dell’accesso a farmaci a basso prezzo e ad altre proprietà intellettuali, alla cauta approvazione dell’Economist per tali considerazioni, fino ad arrivare al falso premio Nobel della professione economica assegnato a Elinor Ostrom per il suo lavoro sui beni comuni. Mettendo insieme tutti questi elementi si potrebbe quasi pensare che attualmente la bilancia del discorso pubblico stia pendendo a sinistra. Eppure, è impossibile non notare che le recenti nazionalizzazioni sono state guidate dalla necessità di salvare il capitale finanziario, non dalla prospettiva di un programma socialdemocratico di redistribuzione – né tanto meno da una strategia di transizione al socialismo. Allo stesso modo, nelle agende dei politici la nuova economia verde è intesa a mantenere il modello di sviluppo produttivista e megaffarista, coniugandolo all’uso di energie rinnovabili e processi più sostenibili.

Certamente le cose sono cambiate, ma stando in un limbo la portata del cambiamento non è per niente chiara. Cerchiamo allora di essere chiari su che cosa sta cominciando a biancare. Forse il cambiamento più grande si situa al livello di cosa può essere detto – ossia cosa viene accettato come argomentazione valida, piuttosto che essere immediatamente relegati alla giungla degli ideologi rabbiosi, ignoranti e affetti da disturbi di personalità. Ai suoi tempi d’oro, l’ideologia neoliberista era così efficiente nel bandire qualsiasi altra forma di pensiero, in quanto si presentava come non ideologica, come una mera ‘ragionevole’ applicazione della ‘scienza’ dell’utile. Oggi invece è possibile vedere (e anche dire) che i presupposti di quelle decisioni ragionevoli erano, ovviamente, massimamente ideologici. Il mercato non tende all’equilibrio, la massimizzazione dell’interesse privato può produrre esiti subottimali e prevalere sulle necessità di autoconservazione collettive , ed in tempi di crisi il trickle-down dai ricchi ai poveri s’inverte nel bail-out dei ricchi pagato dai poveri.

Le premesse di quelle tesi sedicenti non ideologiche – come la trasformazione del mercato in un dato naturale governato da leggi scientifiche note agli economisti orto-dossi (dall’opinione corretta) ma non a quelli etero-dossi (di opinione deviante) – sono state demolite. L’ideologia neoliberista dura e pura finalmente smette di dar forma allo spazio della politica e di definirne i termini, di determinare ciò che è buono e cattivo (investimento vs spesa pubblica; privato efficiente vs pubblico inefficiente, mercato vs piano) e di far ruotare continuamente il centro del dibattito intorno a sé stessa. L’ortodossia neoliberista non è più l’ago della bilancia della politica rispetto al quale tutte le altre opinioni devono posizionarsi.

Liberalismo zombie

Ma la scomparsa del centro ideologico corrisponde davvero alla fine dell’era neoliberista? O si tratta piuttosto di una pausa, di una specie di dieta per scrollarsi di dosso capitale in eccesso e istituzioni inefficienti, cosicché il neoliberismo possa riemergere di nuovo snello e aggressivo?

Da un lato, piuttosto che una ristrutturazione del sistema bancario o la subordinazione del capitale finanziario al controllo politico, la recente ondata di salvataggi è stata semplicemente un enorme saccheggio delle risorse pubbliche, che è andato ad esacerbare trent’anni di iniqua distribuzione della ricchezza. D’altra parte, questa rapina ha perso ogni giustificazione ideologica rivelandosi per ciò che davvero è: un furto puro e semplice. Il neoliberismo ha sempre avuto due facce. È stato sia il contrattacco delle élite nei confronti delle conquiste sociali strappate dai movimenti (operai e non) a partire dagli anni ’30, il tentativo cioè di far rifluire la ricchezza verso i gradini alti della scala sociale; ma anche un progetto ideologico volto a liberare i mercati dall’intervento ingiustificato dei governi e di altri apparati.

Ma cosa rimane del neoliberismo spogliato del proprio rivestimento ideologico? Non si tratta più di un programma politico-economico (relativamente) coerente: è oggi piuttosto il saccheggio disperato di un esercito in ritirata, un modo di minare il sistema politico prima di perderne il controllo. Ma questi terrenti minati, anche se privi del loro camuffamento ideologico, sono comunque letali. In tutti i paesi in cui hanno avuto luogo salvataggi bancari e/o crisi finanziarie, gli enormi deficit pubblici risultanti sono stati usati proprio da quelle forze sociali che ne hanno beneficiato come scusa per rivendicare un altro giro di austerità e taglio alla spesa. Mettendo il controllo in “mani sicure”, fuori da ogni forma di controllo contabile e politico, il neoliberismo è riuscito a trincerarsi. E’ un trucco efficace: il settore finanziario si assicura il controllo sulle politiche facendo leva sul debito che il sistema ha accumulato per salvarlo.

Il quadro è confuso, e lo diventa ogni giorno di più. Mentre il credito si prosciuga e i prezzi di cibo ed energia aumentano, i lavoratori continuano a essere sottopagati e (al Nord) sovrindebitati. Un’eventuale “ripresa” economica che non si traduca nell’aumento massiccio dei salari e/o nella cancellazione dell’indebitamento personale, non riuscirà a cambiare le cose. L’accordo è saltato, come abbiamo detto. Ma se non c’è più né un patto sociale né un’ideologia, come la mettiamo con la base sociale del neoliberismo – ossia con il blocco di potere neoliberista?  In poche parole esso è completamente scompigliato, per non dire infranto. Non esiste più alcun gruppo sociale che possa reclamare una leadership nella società, nella politica, nella cultura e nell’economia. Il centro non tiene più, è instabile e lascia dietro di sé un esercito confuso e crudele, istituzioni che non sono più configurate secondo un quadro coerente, partiti politici ancora in corsa per il potere ma senza programmi reali.

Ma allora, se il blocco di potere è debole, impegnato nel saccheggio del sistema che un tempo gestiva, e se il centro ideologico del neoliberismo si è smarrito, perché un nuovo centro tarda ad emergere? Perché l’apparente svolta discorsiva a sinistra non paga in termini pratici? La risposta sta in parte nel fatto che il progetto neoliberista confidava nell’ideologia meno di quanto i suoi critici tendono a pensare. Teorie e ideologie sono state usate per creare ideologi e attivisti neoliberisti, ma le nostre soggettività (e ciò che esse percepiscono come possibile) non sono plasmate dalla persuasione argomentativa. I veri cambiamenti sono introdotti in un modo più operativo che ideologico, ossia attraverso interventi nella composizione sociale. Il neoliberismo riorganizza i processi materiali con l’obbiettivo di creare quella realtà sociale che la sua ideologia rivendica come già esistente. Si sforza cioè di creare i suoi propri presupposti.

Gli individui, piuttosto che essere stati persuasi dalla forza degli argomenti neoliberisti, sono stati addestrati a vedere sé stessi come dei razionali massimizzatori di utilità, come quelle creature elusive a cui la teoria economica si riferisce. Si tratta di un addestramento coercitivo al mercato, che non riguarda solo le attività economiche, ma qualsiasi sfera della nostra vita, comprese l’educazione, la salute e la cura infantile. Si consideri per esempio il sistema scolastico inglese. Un esercito di ispettori di governo e statistici producono montagne di dati sulle performance scolastiche degli alunni. I genitori dal canto loro si suppone usino quelle informazioni per scegliere la scuola migliore in cui iscrivere i loro figli. L’istruzione è vista come una preparazione dei corpi al mercato del lavoro, e la scelta razionale è invocata anche per giustificare l’inserimento precoce di certi studenti negli istituti di formazione professionale. Nel frattempo molti genitori di classe media tentano di ottimizzare le condizioni di partenza dei propri figli con lezioni private o portandoseli in chiesa ogni domenica mattina (visto che le scuole anglicane sono considerate le migliori sulla piazza).

In effetti le persone sono costrette a considerarsi come capitale umano, a gestirsi come piccole imprese in competizione l’una con le altre, come atomi isolati completamente responsabili per sé stessi. In questo quadro ha avuto senso accettare il ‘deal’offerto dal neoliberismo. Il neoliberismo non ha – o meglio, non aveva – a che fare solo con cambiamenti nella governance globale o con il modo in cui gli stati sono governati: ha a che fare con la gestione degli individui e con il modo in cui essi devono vivere. Istituisce un modo di vita per poi stabilire dei meccanismi che spingono le persone a sceglierlo spontaneamente. Il dado è tratto. Oggi se vuoi essere parte della società devi comportarti come homo economicus.

È questa formattazione neoliberista – relativa non solo alle istituzioni pubbliche e ai programmi di governo, ma in primo luogo a noi stessi – a tenerci intrappolati nel limbo. Il neoliberismo è morto ma non sembra realizzarlo. Nonostante il suo progetto non abbia più senso già da tempo, la sua logica continua a stare in piedi, come uno zombie uscito da uno splatter anni ’70: brutto, persistente e pericoloso. Se nessun nuovo centro è in grado di trovare sufficiente coesione per rimpiazzarlo, la situazione di limbo potrebbe durare ancora per un pezzo… tutte le crisi maggiori – economiche, climatiche, alimentari, energetiche – rimarranno irrisolte; la stagnazione porterà ad una lunga deriva (si ricordi che la crisi del fordismo ci ha messo un decennio, gli anni ’70, a risolversi). Un corpo spogliato di obiettivi, incapace di adattarsi al futuro, incapace di fare progetti: tale è la ‘non-vita’ di uno zombie. Lo zombie può solo agire per routine incancrenite, continuando ad operare nonostante lo stato di decomposizione avanzata. Non è dove ci troviamo oggi? Nel mondo del liberalismo zombie? Il corpo del neoliberismo continua a vagare senza direzione precisa, senza una teleologia.

Qualsiasi progetto si ponga l’obiettivo di uccidere questo zombie dovrà operare a vari livelli, proprio come ha fatto il neoliberismo, il che significa che deve essere legato a un nuovo modo di vita. E deve cominciare qui ed ora, a partire dall’attuale composizione della società globale, di cui grandi fette sono ancora in mano allo zombie neoliberista. Questa è la sfida più grande per coloro che invocano un Green New Deal. Non si tratta solo di cambiare le élite o dilettarsi con la spesa pubblica: c’è bisogno di un cambiamento radicale. Non solo un cambiamento di coscienza nelle sfere alte della società, ma una trasformazione del corpo sociale.

Il centro e il comune

Si possono riconoscere vari sintomi associati al declino del vecchio centro. È qui che si situa il significato del fenomeno Obama: un progetto politico che giunge al potere sulla scia di vaghe promesse di ‘speranza’ e ‘cambiamento’ esprime meno la forza delle proprie idee che la debolezza di quelle altrui. Nel frattempo, sull’altra sponda dell’Atlantico abbiamo assistito al collasso della sinistra parlamentare nelle ultime tornate elettorali. I partiti europei di centro-sinistra (sia di governo che di opposizione) sono stati puniti ai seggi; le destre invece hanno retto meglio alla prova del voto. Molti si sono interrogati sul perché al centro-sinistra sia stata addossata la colpa della crisi economica, ma sta di fatto che la sinistra era diventata la credente più fervente nel neoliberismo: erano giunti a vedere il neoliberismo come una forza progressista, che avrebbe potuto portare sviluppo anche tra i poveri del mondo (non esiste fanatico più entusiasta del convertito). È stata il crollo di tale illusione a farla collassare.

Vuol forse dire che i vari critici di sinistra del neoliberismo (e a volte anche del capitalismo), dai partiti della sinistra radicale ai noglobal di Seattle e Genova possono semplicemente crogiolarsi nell’autocompiacimento? Possono essi reclamare di avere avuto ragione fin dall’inizio ad opporsi non solo al trinomio finanziarizzazione, deregulation e privatizzione, ma anche alla Terza Via di Blair?

Noi facciamo parte di questi critici e sicuramente abbiamo avuto ragione riguardo a molte cose – a partire dall’instabilità del sistema neoliberista del credito. Ma uno degli errori peggiori che possiamo fare in questo momento è di assumere che le vecchie risposte e certezze siano ancora valide. Con il dissolversi del vecchio terreno comune anti-neoliberista e l’emergere di nuove lotte dobbiamo rivedere la questione di chi siamo (o eravamo). Dobbiamo costruire un nuovo Noi. Abbiamo bisogno anche di una nuova attenzione alle risposte emergenti nel contesto della nuova congiuntura. Abbiamo bisogno della capacità di riconoscere a che livello queste risposte entrano in comunicazione fra loro, e uno sforzo attivo per identificare i punti in cui esse convergono e si sovrappongono, rafforzandosi a vicenda. In altre parole abbiamo bisogno di creare, identificare e nominare un nuovo terreno comune – collettivamente.

L’individuazione del terreno comune è principalmente un problema analitico: essa mira all’identificazione di componenti e traiettorie differenti, e ad agire su di esse per rafforzarne gli aspetti comuni; mira cioè a lavorare sulle tensioni che possono essere risolte e a riconoscere le fonti di quelle che non lo sono. Ovviamente l’atto di nominare qualcosa come terreno comune implica sempre la proposta di una sintesi parziale; e il grado di effettività di questa sintesi dipende dalla profondità dell’analisi che la sottende. Essa funziona solo nella misura in cui ciò che nomina significa qualcosa per coloro a cui si rivolge.

Un terreno comune, come un centro, ha un carattere duplice. Da un lato è oggettivo: varie pratiche, diverse soggettività, lotte e progetti possono condividere aspetti comuni, entrare in risonanza, anche nel caso non siano consapevoli gli uni degli altri. D’altra parte i terreni comuni hanno anche un lato soggettivo che richiede una certa autoconsapevolezza e l’abilità di riconoscere ciò che è comune alle altre lotte e progetti. Il No univoco al neoliberismo è l’esempio ovvio di una base comune soggettiva cosciente di sé. Esso implica uno sforzo attivo di identificazione dei terreni comuni e il tentativo di renderli più efficaci. Questa coscienza di sé crea un feedback continuo che può permettere al terreno comune di acquisire consistenza ed eccedere la capacità del centro di contenerla. I terreni comuni contengono un elemento di autonomia, per il fatto che si pongono domande in maniera indipendente.

Questo ci porta alla domanda successiva: come può un terreno comune influenzare il centro? Tanto per cominciare, questo succede spesso in modi che sono invisibili, come forze centrifughe che contrastano la forza centripeta del centro. Sono nuove pratiche e modi di vita e di pensiero che deviano dalla sintesi e si diffondono senza per questo diventare una sfida visibile al centro. Si pensi alle moltissime lotte invisibili che nelle fabbriche o negli uffici rallentano il ritmo di lavoro senza implicare l’organizzazione di uno sciopero; all’impatto sociale di gay e lesbiche che portano il proprio desiderio allo scoperto, fuori dalle nicchie; alle religioni sincretiche del Sudamerica e dell’Africa che permettevano agli indigeni e agli schiavi di praticare le proprie tradizioni sotto gli occhi dei colonizzatori. Si pensi all’avvento della pillola anticoncezionale e al modo in cui essa diede alle donne più potere sui propri corpi, producendo trasformazioni nei rapporti sessuali, nei ruoli sociali e nelle identità.

Tali fenomeni diventano visibili quando, entrando in conflitto con le istituzioni e le pratiche esistenti, fanno attrito con il centro. Le terreni comuni problematizzano il modo in cui il centro compone il mondo, ponendo problemi su cui esso non può far presa. Gli effetti e le trasformazioni prodotte delle terreni comuni ancora ‘innominate’ sono generalmente limitati e spesso accompagnati da forme di mistificazione e repressione. Le terreni comuni divengono più potenti e i loro effetti più pronunciati quando sono sia nominate che rese visibili. Questo accade quando la loro forza centrifuga si trasforma in antagonismo vero e proprio.

Ma questo antagonismo non è semplicemente fine a sé stesso. Durante gli anni ’90, quando il centro neoliberista era al massimo della sua potenza egemonica, era necessario nominare e mantenere un antagonismo che rimanesse a distanza dal centro, precisamente perché uno dei dogmi del neoliberismo – la fine della storia – aveva proclamato la fine di qualsiasi forma di antagonismo. Oggi la situazione è differente. A livello globale la sinistra è quantomai debole, ma la simultanea debolezza del centro dà a noi una capacità unica di intervento nella formazione del nuovo centro. Il compito di nominare nuove terreni comuni corrisponde allo stesso tempo al compito di incrementare la nostra capacità di manipolare i risultati delle nuove crisi, influenzando il modo in cui esse vengono affrontate.

Dovremmo comunque essere consapevoli del fatto che l’emergere di un terreno comune tale da spostare il centro non è necessariamente un evento positivo. Potremmo riandare ad esempio alla genesi del neoliberismo stesso. La Mont Pelerin Society fondata da Friedrich Hayek nel 1947, studiò le idee del libero mercato durante l’età d’oro del keynesismo, allo stesso modo in cui lo fece il gruppo di seguaci che negli anni ’50 si riunì attorno alla scrittrice russo-americana Ayn Rand. La Mont Pelerin Society includeva membri quali George Shultz e Milton Friedman – Shultz lavorò al servizio delle amministrazioni Nixon e Regan, e alla University of Chicago i due formarono il gruppo dei Chicago Boys che liberalizzarono le economie latino-americane durante gli anni ’70 e ’80. Il giovane Alan Greenspan, che poi divenne il capo della Federal Reserve, era un membro del circolo della Rand. Questi pensatori e attivisti del libero mercato articolarono un terreno comune che disarticolò il centro keynesiano/fordista e finì per distruggerlo.

Verso nuovi terreni comuni?

Mentre ci sembra di essere intrappolati in un limbo, la storia non si è fermata. Durante gli ultimi anni abbiamo assistito all’eruzione di una molteplicità di lotte, alcune più visibili di altre. In una parte del Nord globale sono emersi movimenti per agire contro il cambiamento climatico e la giustizia climatica, che sono cresciuti rapidamente. C’è stato anche un aumento dell’attività politica nelle università – come le ondate di occupazioni e scioperi in Italia contro la riforma dell’istruzione pubblica, e le proteste di massa contro l’innalzamento delle tasse universitarie e contro i licenziamenti alla University of California. In alcuni casi, i movimenti di protesta si sono sviluppati attorno a problemi direttamente legati alla crisi finanziaria come per esempio in Islanda, Irlanda e Francia (ricordate i bossnappings?); oppure, come nel caso della rivolta greca, hanno riguardato la patologica assenza di prospettive per la cosiddetta ‘generazione 700 euro’. In America Latina, sicuramente il luogo in cui le forze di sinistra sono cresciute di più, ci sono state lotte indigene intensissime per il controllo delle risorse naturali. In Perù alcune popolazioni indigene hanno affrontato con successo le forze governative per prevenire la distruzione della foresta e di altre risorse, motivata dalla ricerca di nuovi pozzi petroliferi. Altrove, il movimento per l’emancipazione del Delta del Niger ha combattuto l’esercito nigeriano costringendolo ad una tregua e ottenendo l’interruzione di varie operazioni della Shell in nell’area. In Corea del Sud i lavoratori licenziati hanno lottato contro la polizia e l’esercito occupando la fabbrica automobilistica di SsangYong, da cui sono stati sgomberati solo dopo una massiccia operazione di ‘sicurezza’.

Dato che la lista potrebbe continuare a lungo, è strano constatare come queste lotte siano rimaste relativamente separate le une dalle altre. Evidentemente non hanno avuto una risonanza sufficiente per costituire un nuovo terreno comune. Eppure, grazie a loro è possibile identificare alcune tendenze emergenti. Prima di tutto sappiamo che in una crisi epocale come questa, un nuovo terreno comune e un nuovo centro dovranno emergere innanzitutto attorno a quelle questioni che hanno messo in ginocchio l’era uscente.

Si consideri di nuovo la crisi del fordismo. Non solo i salari elevati generarono una crisi dei profitti, ma c’era anche il timore che i sindacati fossero divenuti troppo forti, che lo stato fosse ormai troppo intrusivo e burocratico, e che la vita fosse divenuta troppo uniforme. Il successo del progetto neoliberista, per lo meno nei suoi capisaldi angloamericani, è attribuibile soprattutto al fatto di essere effettivamente riuscito ad affrontare questi problemi, appropriandosi di desideri, discorsi e pratiche in precedenza ‘devianti’, e promettendo agli individui la capacità di realizzarli. Quando il neoliberismo ebbe schiacciato i sindacati, ridotto la burocrazia del welfare state, posto termine alla stagnazione e battuto l’inflazione, da un lato affrontò i problemi che avevano messo in ginocchio il New Deal, ma dall’altro pose anche le condizioni per l’emergere di tutto un insieme di nuove problematiche strutturali.

La prima, ovvia problematica emersa dalla crisi del neoliberismo assume aspetti diversi a seconda della posizione da cui la si osserva. Quella che dall’alto appare come una crisi economica (crescita insufficiente, profitto insufficiente, domanda insufficiente), dal basso è vissuta come una ‘crisi della riproduzione sociale’. La disoccupazione imperversa e il livello dei deficit nazionali pone limiti sempre più stringenti alla sicurezza sociale. Ma risposta zombie-liberista si sta sconfiggendo da sola: salvare le banche e le industrie (ma ad un costo enorme per i governi, facendo lievitare i deficit), cercare di gonfiare di nuovo la bolla del credito facile, sperando che qualcuno prenda a prestito i soldi a disposizione. Sfortunatamente però non c’è a disposizione né domanda di massa, né un consumatore di ultima istanza, né nuove opportunità di investimento su larga scala. Continuando su questa strada si va incontro alla rovina.

Ovviamente questi due punti di vista sulla crisi generano tipi di risposte differenti. Mentre la reazione del liberalismo zombie trova senso nella sua stessa undead logic, per quanto riguarda la crisi della riproduzione sociale, la strategia consiste nella messa in comune (commoning), ossia nella creazione e nell’incremento delle risorse comuni accessibili a tutti: sviluppo dei trasporti pubblici, socializzazione della sanità, garanzia di un reddito minimo e così via. Questa strategia raggiungerebbe due obbiettivi centrali. In primo luogo ci aiuterebbe a superare la paura di perdere l’accesso ai beni essenziali – perché creerebbe spazi di riproduzione sociale indipendenti dai circuiti del capitale che sono in balia della crisi. In secondo luogo affronterebbe l’atomizzazione prodotta da tre decenni di soggettivazione neoliberista. Allo stesso modo in cui le interazioni regolate dal mercato tendono a creare soggetti di mercato, la messa in comune tende a creare soggettività ad essa conformi. E se c’è una risposta altrettanto ‘logica’ alla crisi economica che è quella di escludere alcuni dalle risorse collettive, è altrettanto vero che la creazione di risorse comuni le si può opporre. La strategia di commoning minerebbe alla radice le politiche razziste e ‘nativiste’ che stanno prendendo piede soprattutto in Europa, ma anche in certe zone dell’Africa e dell’Asia.

Una secondo problema centrale è quello della biocrisi, ossia delle molte crisi socio-ecologiche che attualmente stanno sconvolgendo il mondo, come risultato della contraddizione esistente tra il bisogno di crescita infinita del capitale ed il fatto che viviamo su un pianeta finito. Anche la biocrisi ha due facce distinte. Dal punto di vista dello stato e del capitale si costituisce come una minaccia crescente alla stabilità sociale. Minacciando il sostentamento di molte persone, i cambiamenti climatici le costringono a ricorrere all’illegalità. I movimenti su scala globale di quelli che sono “rifugiati climatici” fanno paura a molti governi. La pirateria è una risposta dei pescatori somali alla pesca in eccesso al largo del Corno d’Africa. Ma ovviamente governi e forme di capitale percepiscono queste minacce alla stabilità sociale come delle occasioni per rilegittimare l’autorità politica, per aumentare i poteri di governo e dare vita ad una nuova fase di crescita ‘verde’, propulsa da uranio e austerità.

Ma la biocrisi, come suggerisce il nome stesso, è una crisi capace di minacciare la vita; e soprattutto le vite di coloro che sono meno responsabili della situazione che si è venuta a creare. Sempre più spesso, i movimenti che si coalizzano attorno alle contraddizioni esistenti tra capitale e vita, crescita e limiti, lo fanno anche attorno alla nozione di giustizia climatica: l’idea è quella che le risposte alla crisi dovrebbero ridurre le ingiustizie e le disparità di potere piuttosto che esacerbarle, e che la loro ideazione dovrebbe coinvolgere coloro che sono stati colpiti.

Ovviamente non possiamo essere certi che il nuovo centro e i nuovi terreni comuni emergeranno intorno a queste questioni – la crisi economica, quella della riproduzione sociale e la biocrisi – ma siamo convinti che qualsiasi progetto che voglia avere successo le dovrà necessariamente affrontare.

Dai beni comuni alle costituzioni

Il processo di costruzione di un nuovo terreno comune implica un momento di riflessione, un passo indietro rispetto alle assunzioni, alle tattiche e alle strategie del ciclo di proteste antiliberiste e noglobal del passaggio di secolo. Il terreno comune costruita e mantenuta in quel periodo deve essere ricomposta sulla base della nuova situazione.

Il movimento noglobal è stato sospettoso nei riguardi delle istituzioni in quanto tali, delle forme costituite di potere – e spesso vi si è anche opposto. Questo sospetto era evidente, per esempio nella tensione intrinseca ad una delle sue forme più istituzionalizzate, il World Social Forum (WSF). La ragione dello scetticismo del movimento era d’altronde fondata nel riconoscimento generale che l’ideologia neoliberista era riuscita a colonizzare la maggior parte dei partiti e dei sindacati.

Ma quando è scoppiata la crisi del neoliberismo è emerso anche che la sfiducia nelle istituzioni esistenti è stata azzoppata dall’incapacità di prendere le redini della politica e dell’economia. L’antagonismo fine a sé stesso contro le istituzioni è giunto ad un binario morto. L’abbandono delle istituzioni lascia dietro di sé un vuoto che la politica (odiando il vuoto) tende a riempire con i calcoli di una presa graduale. I momenti di antagonismo devono essere sia parte dell’attuale processo di costruzione dell’autonomia, sia parte della costituzione di nuove forme di potere, altrimenti rischiano la dissipazione e, nel peggiore dei casi, reazioni opposte. Oggi abbiamo bisogno di molto più che sporadiche manifestazioni di forza: c’è bisogno di forme di organizzazione che comincino dalla gestione collettiva dei bisogni, che politicizzino le strutture e i meccanismi della riproduzione sociale, e che da lì si espandano. Che forma potrebbero avere nel contesto dell’attuale congiuntura? Potrebbe forse trattarsi di campagne contro gli sfratti, contro il costo dei beni essenziali, contro il debito privato, per le risorse energetiche…? In ogni caso, c’è bisogno di interventi che prendano piede a partire dalla vita condivisa e che lì assumano consistenza, ma anche che si servano dei momenti di antagonismo come un mezzo per aumentare il loro potere costituente, piuttosto che come un fine in sé. Mentre un decennio fa, con la dottrina neoliberista all’apice del suo potere e molte vie istituzionali completamente precluse, la tattica del rifiuto totale era credibile, oggi la situazione è cambiata e si sono aperte problematiche diverse.

In effetti esistono alcuni esempi di trasformazioni importanti che sono riuscite anche a produrre riforme istituzionali. I più notevoli sono senza dubbio i processi costituenti in Bolivia ed Ecuador, i quali hanno dato luogo a carte costituzionali che rappresentano una novità assoluta nella storia di quei paesi, ma anche nella storia del diritto. Con loro ha preso forma una nuova organizzazione dei poteri, grazie alla quale, per la prima volta nella storia, la vasta maggioranza della popolazione ha davvero ottenuto voce in capitolo e un certo grado di rappresentanza. Ma soprattutto, con l’istituzione della pluri-nazionalità come principio dello stato, si è creata una rottura importante con la nozione moderna di sovranità.  Nello stesso stato sono state riconosciute sia formazioni multiple, autonome e sovrane, sia l’eredità storica del colonialismo. Nel caso dell Ecuador infatti, la pluri-nazionalità non non è stata l’unico principio ad essere istituito; si è fatto lo stesso il concetto indigeno di “buona vita” (sumak kausay) e con i ‘diritti della natura’. Questi ultimi, un invenzione unica nella storia del diritto, sono una conseguenza diretta del principio di “buona vita” il quale necessariamente include l’ambiente, inteso come risorsa nella quale (piuttosto che della quale) si vive. L’idea che lo stato parlamentare moderno avesse trovato una forma definitiva e imperfettibile era centrale nella dottrina della ‘fine della storia’. Nonostante il movimento altermondialista si sia fermamente opposto a questa dottrina, esso ha comunque accettato la sua stessa premessa all’inverso, e cioè l’idea che le istituzioni non si possono cambiare. Ma la necessità di rifiutare le istituzioni per come le conosciamo non implica che le rifiutiamo in quanto tali.

Queste costituzioni sono un buon inizio, ma è solamente dopo averle scritte che il vero processo costituente può prendere vita e integrare il testo scritto con una trasformazione vera e propria. Questa è infatti la vera prova che la rinascita politica del Sudamerica dovrà presto affrontare: evitare il pericolo che ci coalizzi una reazione organizzata contro di essa (vedi Honduras) e aprire le porte al futuro delle sue migliori storie di successo. Ovviamente, questo è anche un problema di centri e di terreni comuni: quanto lontano dal vecchio centro questi processi si riusciranno posizionarsi? Quali terreni comuni dovranno essere costruite in modo da poterli influenzare?

Le recenti esperienze sudamericane sono state e rimangono contraddittorie: il riconoscimento dei ‘diritti della natura’ e della ‘vita buona’ vanno di pari passo con l’approfondimento dell’ideologia dello sviluppo (developmentalism), con lo sfruttamento crescente delle risorse naturali e con una nuova enfasi nell’esportazione di beni primari. La questione che si pone è perciò la seguente: la forza costituente dei movimenti si è interamente esaurita in questo processo? Il tempo a venire sarà dedicato alla consolidazione delle recenti conquiste o ad un innalzamento della posta in gioco? Assisteremo a manovre tattiche di retroguardia o a movimenti strategici? Riusciranno ad affermarsi nuove dinamiche politiche in grado di riaccendere quell’energia trasformativa che abbiamo visto operare In Brasile, Bolivia, Venezuela ecc. o assisteremo al suo raffreddamento e alla cristallizzazione della situazione attuale?

Quanto sono rilevanti questi processi e queste domande per coloro che non si trovano in Sudamerica? Sotto vari punti di vista questo continente, dove le istituzioni sono in dialogo con il terreno comune dei movimenti, si presenta come un’anomalia; e questa anomalia probabilmente non è altro che il sintomo della crisi del neoliberismo.

Gran parte del mondo si trova a fronteggiare sintomi e domande chiave molto diversi da quelli del Sudamerica: se il liberalismo zombie è la forma attuale della governance, allora come possono i movimenti sociali influenzare il resto della società? Se non c’è un centro dominante, come potranno essere rese visibili le lotte su terreni comuni emergenti? Come si combatte un nemico incoerente? Se i soggetti neoliberisti continuano a riprodursi, come potremo interrompere questo processo e aprire nuovi orizzonti di soggettività?

Comunque sia, molte delle lotte attuali si basano sull’idea che il liberalismo zombie non potrà persistere a lungo e che un nuovo centro finirà per emergere. Si pensi per esempio ai movimenti sorti attorno al problema dei cambiamenti climatici: lì la lotta non riguarda solo l’indifferenza, ma anche i modi in cui la questione e le possibili soluzioni sono presentate. Da questo punto di vista l’anomalia sudamericana potrebbe costituire l’avamposto di un futuro comune, e i suoi problemi potrebbero improvvisamente riguardare anche noi. Questa è la vera difficoltà di agire in tempo di crisi. Quando il futuro è così incerto è come se dovessimo operare contemporaneamente in molti mondi diversi. Dobbiamo nominare un terreno comune e allo stesso tempo lasciarlo aperto a nuovi sviluppi. Dobbiamo cercare interlocutori istituzionali, e allo stesso tempo accettare idi doverci costruire in parte da soli le nostre istituzioni. Dobbiamo creare le condizioni per un nuovo terreno comune, senza farci intrappolare da esso.

Ovviamente questi sono tutti compiti estremamente difficili, ma è così che si costruisce un nuovo Noi. Anche un primo passo potrebbe apparire quasi impossibile al momento, ma non dobbiamo dimenticare che quando un nuovo terreno comune inizia a prendere forma, le cose possono cominciare a muoversi assai rapidamente. L’attuale stato di cose è talmente instabile, che anche un piccolo movimento potrebbe avere un effetto portentoso. Forse basta anche poco per trasformare un mondo in preda all’entropia in un mondo ricco di potenzialità.

Turbulence sono David Harvie, Keir Milburn, Tadzio Mueller, Rodrigo Nunes, Michal Osterweil, Kay Summer, Ben Trott.

Traduzione di Alessandro Zagato (alessandro.zagato@gmail.com)

Editing di Alex Foti (alex.foti@gmail.com)

This is an Italian translation of the Issue 5 editorial article, ‘Life in Limbo?’ by Turbulence. An abridged version was originally published in Issue 10 of Loop magazine. Additional translations of this article: Danish (published byModkraft.dk) | Dutch (published by GlobalInfo.nl) | Spanish [PDF] (published by Herramienta and in our Spanish edition) | Turkish (published by Birikim) | Swedish[PDF] (published by Brand) | Portuguese (published by Lugar Comum). Translations of other Turbulence articles can be found here.

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