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Il “Giorno del Ricordo” degli Esuli e delle Foibe in Italia: il significato di una commemorazione neo-fascista

Di Marc Wells
15 marzo 2006

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Questo articolo è stato precedentemente pubblicato in inglese il 9 marzo 2006

Una “foiba” è una cavità naturale a forma di imbuto capovolto con profondità fino ai 200 metri, creata da erosione idrica. Queste formazioni sono tipiche del Carso, un’area a est di Venezia divisa fra Italia, Croazia e Slovenia.

Già da alcuni anni, l’alleanza della destra italiana guidata dal presidente del consiglio Silvio Berlusconi ha sfruttato gli eventi legati alle foibe durante e subito dopo la Seconda Guerra Mondiale al fine di diffondere una campagna nazionalista e anti-comunista, con il consenso dell’opposizione, costituita dagli ex-stalinisti del Partito Democratico di Sinistra (PDS).

I fatti storici sono stati volgarmente semplificati o estratti dal contesto con lo scopo di stimolare un revival neo-fascista e “patriottico” attraverso ore di trasmissioni televisive e telegiornali dedicati alla propagazione di informazioni parziali o false.

Secondo la versione storica dell’ultra-destra, il regime jugoslavo stalinista del Maresciallo Tito fu responsabile dell’omicidio di massa di 20.000 italiani innocenti i quali vennero catturati, uccisi e gettati nelle foibe nel 1943 e 1945. Molti di essi, si dice, furono gettati in quelle fosse da vivi. Inoltre, secondo questa storia, 350.000 italiani furono cacciati dalle loro case dall’occupazione di Tito.

Nel marzo del 2004 il Parlamento italiano ha passato una legge che dichiara il 10 febbraio “Giorno del Ricordo in Memoria degli Esuli e Vittime delle Foibe,” in onore delle vittime e le loro famiglie, o almeno questa era la motivazione ufficiale. La scelta di questa data è in se stessa una provocazione: il 10 febbraio 1957, Italia cedeva alla Jugoslavia parte della Venezia Giulia nel Trattato di Parigi.

E così oggi, ogni 10 febbraio, la propaganda nazionalista inquina l’etere italiano promuovendo lo sciovinismo, sfruttando eventi tragici che rimangono senza spiegazione. Filmati di cadaveri rimossi dalle foibe e immagini di donne anziane in lacrime si alternano a quelle del leader neo-fascista Gianfranco Fini che visita la regione, o a quelle del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che discute l’importanza del patriottismo italiano e del sacrificio nazionale. Quest’anno, la propaganda è mirata direttamente ad influenzare i risultati delle prossime elezioni in Aprile.

La prima distorsione è già contenuta nella premessa del “Giorno del Ricordo” che combina due episodi storici distinti: gli eventi delle foibe nel periodo 1943-45 e l’esilio degli italiani dai cosiddetti territori irredenti tra il 1945 e il 1960. Per quanto riguarda questi ultimi, le autorità jugoslave non hanno mai emesso un decreto d’espulsione, mentre quelle italiane hanno ignorato le difficoltà di questi immigrati, rilocando migliaia di persone in posti sperduti come certe aree rurali della Sardegna.

Anche se erano senza dubbio strettamente collegati, questi due episodi non possono essere compresi come il singolo risultato della “furia del comunismo di Tito,” come sostengono per motivi politici i filistei del governo Berlusconi.

Questo articolo discuterà solamente gli eventi delle foibe.

La storia di quell’area geografica che divenne poi la Jugoslavia è una di oppressione e di repressione. All’alba del ventesimo secolo, i popoli slavi dei Balcani erano sotto il dominio, a nord, dell’Impero Austro-Ungarico, e a sud del decrepito Impero Ottomano. Questi popoli, a quel tempo noti come “slavi meridionali”, espressero in molte occasioni la volontà di creare un proprio stato-nazione. Molti di essi si ispiravano all’Unione Balcanica delle Repubbliche Socialiste, un progetto politico a favore del quale combatterono marxisti come Svetozar Markovic, Dimitrije Tucovic and Christian Rakovsky.

Nel tardo diciannovesimo e all’inizio del ventesimo secolo, la regione balcanica era un crogiolo di grandi conflitti sociali e nazionali, in cui le grandi potenze intervenivano per favorire i propi interessi. Verso la fine della prima guerra mondiale, le terribili condizioni economiche e sanitarie, e la carestia, contribuivano alla radicalizzazione delle masse di lavoratori nella regione del Carso. Essi organizzavano scioperi chiedendo la fine immediata del conflitto. Quando la guerra finalmente terminò, questi territori si trovavano sotto controllo militare italiano, in teoria fino a quando un accordo internazionale potesse essere raggiunto.

Nel frattempo, spaventate dalla recente Rivoluzione d’Ottobre in Russia, e appoggiate dai paesi imperialisti che volevano dividersi le spoglie della guerra, le classi dirigenti Slovene e Croate creavano il Regno di Serbia, Croazia e Slovenia nel dicembre del 1918 (il nucleo territoriale che nel 1929 divenne poi la Jugoslavia—“Jug” significa “sud”).

I territori nordoccidentali di questo nuovo stato confinavano con l’Italia. Vari trattati (Versailles nel 1919, Rapallo nel 1920) stablilivano la sovranità italiana sulla Venezia Giulia, e anche sulla parte occidentale della Croazia e della Slovenia (Istria e parte della Dalmazia). Diversi gruppi etnici vivevano assieme in quei territori da secoli. Nel primo dopoguerra, i governi italiani, e in particolar modo i fascisti di Mussolini, imposero una politica di pulizia etnica conosciuta come Italianizzazione, mirata a cancellare ogni traccia di cultura slava, considerata barbara e inferiore dai fascisti, e all’imporre l’italiano come lingua e “cultura” ufficiale.

Negli anni venti, le scuole slave della regione furono chiuse; centri culturali bruciati; l’uso delle lingue slovene e croate bandito dalla burocrazia statale e dal sistema giudiziario; nuove leggi limitavano assemblee ed eventi pubblici delle associazioni non-italiane; i nomi furono italianizzati per eliminare qualsiasi apparenza di influenza slavica, e così via. Negli anni trenta, le leggi razziali e anti-semitiche di Mussolini continuavano a distinguere tra gli “italiani puri” e i popoli inferiori.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, dopo i devastanti bombardamenti su Belgrado operati dalla Luftwaffe tedesca, le forze armate italiane, appoggiate da quelle tedesche, ungheresi e bulgare, invasero la Jugoslavia. Il regime di Mussolini prese controllo della Dalmazia, Slovenia (che divenne così la Provincia di Lubiana), Croazia (governata dall’alleato di Mussolini Ante Pavelic, capo della forza fascista Ustascia nota per la sua brutalità) e parte del Montenegro.

La Jugoslavia divenne allora il teatro di molti dei più orrendi crimini di guerra mai commessi. Pochissimi degli ufficiali italiani responsabili furono mai puniti, grazie alla protezione del Vaticano. Infatti, molti dei criminali di guerra entrarono nel più importante partito borghese del dopoguerra: la Democrazia Cristiana. Su una popolazione jugoslava di 16 milioni, quasi 1.400.000 furono uccisi durante la guerra. L’Italia fu responsabile dell’uccisione di almeno 250.000 jugoslavi, la gran parte dei quali morì non sul campo di battaglia, ma durante massacri ed espulsioni di massa.

Il regime fascista di Roma fu direttamente responsabile dell’uccisione, violenza sessuale, tortura, privazione di cibo e mutilazione di migliaia di persone e per aver distrutto centinaia di villaggi. La Seconda Armata guidata dal Generale Roatta fu particolarmente brutale nelle sue tattiche.

Un fatto che è rimasto deliberatamente occulto per decenni è che il regime di Mussolini costruì campi di concentramento sia in Jugoslavia che in Italia. Tennero prigionieri 30.000 croati e sloveni, includendo bambini, donne e anziani, molti dei quali vennero condannati a morte dai tribunali italiani. Deportazioni di massa, torture e incendi dolosi erano usati abitualmente contro l’opposizione incalzante, la quale si organizzava attorno all’Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia guidata da Tito.

L’8 settembre 1943, l’Italia firmava l’Armistizio di Cassabile con il Regno Unito e gli Stati Uniti, cessando ufficialmente le ostilità fra quelle potenze. Questo accordo, tuttavia, non specificava le relazioni fra Italia e Germania. Il fascismo in Italia era ancora vivo e in ottima salute: i tedeschi auitarono Mussolini ad evadere dalla prigione di Campo Imperatore sul Gran Sasso e a fondare la Repubblica Sociale Italiana (RSI) nell’Italia settentrionale alla fine di quel mese, in diretta vicinanza alle aree in questione.

Le ambiguità dell’armistizio, la guerra e la situazione politica in generale contribuirono alla velocità con cui gli eventi si succedettero. Molti sostenitori di Mussolini che appoggiavano la Repubblica di Salò vedevano il patto come un tradimento dei loro alleati tedeschi, continuando quindi una forte presenza fascista.

Il giorno seguente all’armistizio italiano con il Regno Unito e gli USA, l’esercito di Hitler lanciava un’invasione del territorio precedentemente occupato dagli italiani, internando circa 30.000 prigionieri nei campi di concentramento (in particolare la risiera di San Sabba). Le forze armate italiane concessero l’intera regione insieme a migliaia di soldati che vennero eventualmente uccisi o deportati dai tedeschi.

Durante quei giorni di caos e disorientamento, il leader comunista sloveno Edvard Kardelj guidava un contrattacco per distruggere i fascisti. La linea di separazione fra gli italiani e i fascisti era parzialmente offuscata, certamente da decenni di terrore e brutalità. I partigiani e i contadini jugoslavi, a cui si unirono i soldati italiani che erano stati abbandonati dal loro governo e protetti dai partigiani di Tito, catturarono ed uccisero 250-300 italiani, per la maggior parte fascisti, polizia e camicie nere. Fra essi, secondo fonti ufficiali, vi erano donne, bambini ed anziani, possibilmente parenti dei fascisti. I loro corpi venivano infoibati (cioè gettati nelle foibe). Circa 2.000 italiani in totale vennero uccisi nel 1943, includendo uccisioni non correlate alle foibe.

Come indicato dal Resoconto della Commissione Storica e Culturale Sloveno-Italiana pubblicato a gennaio 2000 da un gruppo di storici italiani e sloveni, “le uccisioni erano motivate non solo da fattori nazionali e sociali, ma anche da un desiderio di colpire la classe dirigente locale,” un fatto che l’alleanza di destra dei nostri giorni ed i suoi apologeti vogliono ignorare.

Il secondo episodio delle foibe avvenne nel 1945, subito dopo l’arresa dei tedeschi. A cominciare dal primo maggio e per le successive sei settimane, i partigiani jugoslavi procedettero all’occupazione della costa adriatica al fine di creare uno stato de facto prima che le forze alleate potessero raggiungere la zona e assoggettarla al loro controllo. I partigiani di Tito lanciarono questa campagna per redimere i territori con l’obiettivo di annettere le aree in questione, ancora popolate prevalentemente da slavi.

Questa campagna consisteva nella persecuzione di chiunque fosse considerato ostile al nuovo stato emergente, la Jugoslavia. Gli eventi deragliarono fuori controllo: l’OZNA (l’agenzia di servizi segreti), l’esercito, bande di croati, serbi, sloveni e persino italiani parteciparono ad un’ondata di repressione contro elementi come gli ustascia, i cetnici, spie, presunti “traditori della lotta popolare”, “disertori del popolo”, “nemici dell’armata popolare” e così via.

Come evidenziato dallo scrittore storico Gianni Oliva nel suo libro La Resa Dei Conti (edizioni Mondadori, 2000), già dal 6 maggio la leadership di Tito aveva avvertito che la situazione stava degenerando ed emise un avviso circa il rischio di atrocità ed uccisioni per vendetta, ammonendo l’OZNA per aver operato irresponsabilmente.

Ma gli eventi si susseguirono ad una velocità vertiginosa: centinaia di persone vennero uccise ed i loro corpi gettati nelle foibe. Testimoni oculari hanno dichiarato che solo cadaveri venivano buttati nelle buche. Ci sono, tuttavia, casi riportati di vittime che sarebbero state infoibate vive. A volte, alcuni venivano fucilati ai margini di una foiba e, nel cadere dentro, trascinavano con loro qualcuno ancora vivo.

Il numero totale di morti durante quei 40 giorni di sangue, secondo gli storici più seri, è stabilito a circa 5.000, 570 dei quali sarebbero stati vittime delle foibe. Il resoconto italo-sloveno di cui sopra dichiara che gli eventi “vennero messi in moto da un’atmosfera di resa dei conti con la violenza fascista; ma, come sembra, procedettero principalmente da un piano preliminare che includeva varie tendenze: azioni volte alla rimozione di persone e strutture che erano in una maniera o l’altra (indipendentemente dalla responsabilità personale) connesse al fascismo, alla supremazia nazista, a collaborazione con lo stato italiano o ad esso stesso, ed azioni volte alla pulizia preventiva di oppositori reali, potenziali o solo sospettati del regime comunista e dell’annessione della Venezia Giulia alla nuova Jugoslavia.”

Uno degli aspetti reazionari della corrente campagna di destra in Italia sulla questione delle foibe è l’implicazione che le vittime dei “comunisti” sarebbero più significative di coloro morti per mano italiana, tedesca o uccisi dagli Alleati.

Il giornalista Indro Montanelli, in un passato non troppo lontano socio di Berlusconi nella direzione (e proprietà) de Il Giornale, prima della sua morte nel 2001 dichiarava che le vittime durante una guerra, come gli jugoslavi uccisi dalla brutalità fascista, non possono essere paragonate a coloro (gli italiani) i quali venivano uccisi alla fine della guerra. Inoltre, asseriva che l’Italia non ha mai perseguito politiche di pulizia etnica, mentre gli stalinisti jugoslavi sarebbero colpevoli di tale crimine.

Riguardo quest’ultimo punto, Montanelli mostrò semplicemente la sua simpatia per il fascismo quando dichiarava che la campagna di Italianizzazione di Mussolini negli anni ’20 e ’30 e le leggi razziali e antisemite implementate nei tardi anni ’30 in realtà non sono mai successe.

In ultima analisi, l’azione del parlamento italiano nell’istituire il cosiddetto “Giorno del Ricordo” nazionale è un tentativo della classe dirigente, in concerto con i mass media e certi intellettuali, di falsificare la storia al fine di giustificare il suo losco programma attuale. La legittimizzazione del retaggio fascista e la sua brutalità dovrebbero servire alla classe lavoratrice come un serio allarme sul vero stato delle relazioni di classe della “democrazia” italiana.