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RIEMERGE UN PREGIUDIZIO

Femminismo ed ecologia, un legame naturale?


Aumentano i parti in casa, si magnifica l’allattamento al seno… Negli ultimi anni, la grande attenzione all’ecologia ha modificato il modo di guardare alla maternità. Al di là delle critiche rivolte all’eccesso di medicalizzazione o alle lobby industriali, si vede a volte riemergere la discussa idea di una «natura femminile». Un dibattito che, negli Stati uniti, va avanti da vent’anni.


di JANET BIEHL *

Le donne sono più «verdi» degli uomini? Hanno un particolare rapporto con la natura, o un punto di vista privilegiato sui problemi ecologici? Negli ultimi decenni, donne che si dicono femministe hanno risposto alla questione affermativamente. In realtà, la loro posizione data praticamente dalla nascita del moderno movimento ecologista. Nel 1968, nel suo libro La Bombe P (1), Paul Ehrlich sosteneva che la sovrappopolazione avrebbe portato alla morte del pianeta. La cosa migliore che si potesse fare per la Terra, affermava, era rifiutare di riprodursi. Qualche anno più tardi, una femminista radicale francese, Françoise d’Eaubonne, osservava che la metà della popolazione non aveva il potere di fare una simile scelta: le donne non avevano il controllo della propria fertilità. Il «sistema del maschio», come lo chiamava, le voleva a piedi nudi, incinte e proliferanti. Ma, affermava la d’Eaubonne, le donne potevano e dovevano reagire esigendo libertà di riproduzione: facile accesso all’aborto e alla contraccezione. Ecco cosa le avrebbe emancipate, salvando il pianeta da un eccesso di popolazione. «Il primo rapporto dell’ecologia con la liberazione delle donne – scrive – sta nella possibilità che queste ultime riprendano in mano la demografia, il che vuol dire riappropriarsi del corpo (2).» Nel libro pubblicato nel 1974, Le Féminisme ou la mort, dava a questa idea il nome di «ecofemminismo». Gli ambientalisti americani ripresero l’idea, ma dandole un senso diverso. Ricordarono che l’autore di Silent Spring [Primavera silenziosa], l’opera che ispirò l’ecologismo nel 1962, era una donna: Rachel Carson (3). Osservarono che ormai le donne erano alla testa delle manifestazioni contro le centrali nucleari o i rifiuti tossici – come Lois Gibbs a Love Canal, nello stato di New York. Una donna, Donella Meadows, era tra gli autori del noto rapporto Halte à la croissance? (4), apparso nel 1972. Petra Kelly era una delle figure di punta dei Verdi tedeschi. Nel Regno unito, un gruppo denominato Women for Life on Earth («Le donne per la vita sulla Terra») aveva organizzato un «campo per la pace» nella base aerea di Greenham Common per protestare contro il dispiegamento di missili da crociera dell’Organizzazione del trattato del Nord Atlantico (Nato). Molte partecipanti si proclamavano ecofemministe; senza per questo aderire alla battaglia per la libertà di riproduzione. Si cominciò a vedere un rapporto particolare tra le donne e la natura, presente già nella lingua: le parole «natura» e «Terra» sono di genere femminile, le foreste sono «vergini», la natura è «madre», che è «la più saggia». Le donne possono essere incantatrici «selvagge». Per contro, le forze che tentavano di «dominare» la natura e di «violare la Terra» erano quelle della scienza, della tecnologia e della ragione: tutte elaborazioni maschili. Millenni fa, Aristotele definì la razionalità come maschile; le donne, pensava, erano meno adatte al ragionamento e, per questo, meno umane. Nel corso dei due millenni che sono seguiti, la cultura europea ha considerato le donne come intellettualmente carenti e, seguendo in questo i principi della Genesi, ha cercato di dominare la Terra. Poi l’Illuminismo, altro progetto in apparenza maschile, ha trovato nuovi modi di devastare la natura per mezzo della scienza, della tecnologia e delle fabbriche. Gli autori di questa distruzione ambientale erano uomini che riducevano la natura a un insieme di risorse da sfruttare e trasformare in merci. Secondo la filosofia del New Age e dell’ecofemminismo, il progetto dell’illuminismo, nel suo cercare di sottomettere la natura e nel glorificare la ragione, risultava distruttivo per il pianeta. Questa è stata la tesi di autori quali Frijtof Capra o Charlene Spretnak (5). Ma le donne, affermavano le femministe degli anni ’70, avevano le mani pulite. E il mondo aveva bisogno di meno razionalità distruttrice della natura; se le donne risultavano essere più intuitive ed emotive degli uomini, ciò era perfetto: l’antidoto erano loro. Sentendosi legate ai ritmi della natura, comprendevano intuitivamente l’interconnessione tra quest’ultima e gli esseri umani. La difesa dell’ambiente dalla distruzione stava precisamente in questo particolare legame. Così, identificare le donne con la natura divenne un pensiero positivo, che le elevava al rango di guardiane del messaggio ecologista. L’idea è stata legittimata dai lavori della psicologa Carol Gilligan, la quale pensava che lo specifico sviluppo morale delle donne ne faceva le portatrici di un’«etica della cura degli altri (6)», o care (7). Alcune, come Mary Daly , sono arrivate a suggerire l’idea che la natura sia una divinità, immanente in tutte le creature viventi, e che le donne partecipino della sua essenza (8). Le femministe autentiche, quelle che si battono per la conquista dei loro diritti, ne sono state inorridite. L’ecofemminismo, hanno protestato, traffica con stereotipi patriarcali: si è appropriato di un antico insulto, presentandolo come un complimento. Stereotipi utili a giustificare, nel corso del XIX secolo, l’ideologia delle «sfere separate», che aveva limitato all’universo domestico le scelte di vita delle donne, mentre ne dorava le sbarre della prigione con omaggi inneggianti la loro superiorità morale. L’ecofemminismo era solo una riedizione di questi cliché oppressivi. Benché rimessi a nuovo e dipinti di verde, non potevano trovare posto nella lotta femminista; servivano semplicemente ad aprire la porta a una nuova iterazione della «mistica femminile». E, in realtà, negli anni ’70, molti ambientalisti erano uomini: Denis Hayes, David Suzuki, Ralph Nader, Paul Watson, o ancora David Brower, Lester R. Brown, Barry Commoner, E.F. Schumacher, Murray Bookchin, Amory Lovins. Nel frattempo, le ecofemministe occidentali si interessavano al terzo-mondo, dove si stavano portando avanti dei progetti finanziati dalla Banca mondiale. Gli ingegneri costruivano dighe sui fiumi per produrre energia idraulica e, così facendo, distruggevano molte comunità. L’agro-industria trasformava terre stabilmente coltivate da anni in monocolture, con raccolti destinati unicamente all’esportazione sul mercato mondiale. Si abbattevano foreste che procuravano ai villaggi frutta, combustibile e materiali destinati all’artigianato, e che proteggevano le acque sotterranee e gli animali. Questo «cattivo sviluppo», come lo definivano gli oppositori – un capitalismo internazionale sfruttatore e sfrenato – distruggeva non solo le foreste, i fiumi e le terre, ma anche comunità e modi di vivere ecologicamente sostenibili. Gli autoctoni lottavano contro queste devastazioni. Nel Nord dell’India, in particolare, quando una compagnia progettò di dedicarsi allo sfruttamento delle foreste, le donne del villaggio si opposero abbracciando fisicamente gli alberi per impedire che venissero abbattuti. Nel decennio seguente, il loro movimento, che prese il nome di Chipko, conquistò tutto il subcontinente. Il Chipko infiammò l’immaginazione delle ecofemministe occidentali, e la realtà dei fatti sociali contribuì a rafforzare la mistica donna-Terra. Nelle zone rurali in Africa, Asia e America latina, spiegarono Vandana Shiva e altre, le donne sono giardiniere e orticoltrici; possiedono una profonda conoscenza dei processi della natura. Il «cattivo sviluppo» maschile non dà valore alle risorse se non in quanto potenziali merci nell’economia di mercato; ma le autoctone sanno che bisogna rispettare le risorse perché ne sia assicurata la disponibilità alle generazioni future. Di conseguenza, le donne danno istintivamente la massima priorità alla protezione dell’ambiente naturale. La fascinazione dell’ecofemminismo per il movimento Chipko sconfinava nell’idealizzazione dell’agricoltura alimentare. Che dire delle donne che aspiravano all’istruzione, a una vita professionale e a una piena cittadinanza politica? Le ecofemministe sembravano preferire che restassero chiuse negli antichi ruoli, a piedi nudi a occuparsi di giardinaggio. E trascuravano il fatto che anche gli uomini erano impegnati nel movimento Chipko… Tornare alle «sfere separate»? Tuttavia, questo interesse ha avuto il merito di mettere in luce le ragioni specifiche per cui la distruzione dell’ambiente colpisce le donne. Quando si convertono alla monocoltura delle terre agricole produttive, le donne, che praticano massicciamente l’agricoltura di sussistenza, devono trasferirsi su crinali in cui le terre sono meno fertili, il che comporta deforestazione, erosione dei suoli e le vota alla povertà (9). Anche i cambiamenti climatici colpiscono soprattutto le donne: l’inferiorità del loro status e del diverso ruolo sociale ne aumenta la vulnerabilità di fronte a tempeste, incendi, inondazioni, siccità, canicole, malattie e carenze alimentari. Ogni anno, secondo un rapporto del Women’s Environmental Network (Wen), un’organizzazione con base nel Regno unito, più di diecimila donne, contro quattromilacinquecento uomini, trovano la morte in disastri legati a sconvolgimenti climatici. Le donne rappresentano l’80% dei rifugiati a causa di catastrofi naturali; su ventisei milioni di persone che hanno perduto casa e mezzi di sussistenza per cambiamenti climatici, venti milioni sono donne (10). Nel 1991, in Bangladesh, ad esempio, quando un ciclone ha costretto gli abitanti ad abbandonare le proprie abitazioni, sono morte cinque volte più donne che uomini. Gli abiti ne hanno intralciato i movimenti; sono restate troppo a lungo in casa in attesa di un parente maschio che le accompagnasse, mentre gli uomini, che si trovavano in luoghi più aperti, si avvisavano l’un l’altro del pericolo, a volte senza avvertire le donne restate a casa. E là dove lo status sociale delle donne è più vicino a quello degli uomini, secondo Wen, le donne povere sono più vulnerabili alla crescita dei prezzi delle derrate alimentari, alle ondate di caldo e alle malattie provocate dalla distruzione dell’ambiente. Negli Stati uniti, l’interpretazione romantica del rapporto donna-natura è recentemente ricomparsa dopo il crollo finanziario provocato dalla cupidigia di Wall Street: «Le donne scelgono relazioni e strategie a lungo termine, che danno la priorità alle generazioni future», scrive Shannon Hayes nel suo libro dedicato alle radical homemakers («casalinghe radicali») (11). Queste nuove incarnazioni della madre Terra rinunciano ai vantaggi economici che l’alto livello di istruzione e una carriera professionale avrebbero potuto garantire: scelgono di restare a casa per occuparsi della famiglia e dare ai figli cibo sano, a cominciare dai gustosi alimenti che producono in giardino. Coltivano le relazioni con gli altri, privilegiano la semplicità e l’autenticità. Autosufficiente, la loro casa è un rifugio sicuro in caso di eventuale disastro economico. E il loro livello di inquinamento ambientale è molto basso. Riescono così a realizzarsi sul piano personale e a dare un senso alla loro vita – almeno a prima vista. La difesa dell’ambiente dura ormai da un tempo abbastanza lungo, tale da consentire ai ricercatori in scienze sociali di condurre studi esaurienti sull’atteggiamento rispettivo degli uomini e delle donne in relazione alla questione ecologica, rilevando eventuali differenze. Dagli anni ’80, la maggior parte di loro è giunta alla conclusione che, nei paesi industrializzati, le donne sono effettivamente più preoccupate degli uomini della distruzione dell’ambiente. Secondo alcuni studi, le donne contribuiscono meno all’inquinamento. Un rapporto svedese dimostra che gli uomini concorrono al riscaldamento climatico in modo sproporzionato rispetto alle donne, perché guidano su percorsi più lunghi: la circolazione automobilistica in Svezia è imputabile nel tre quarti dei casi agli uomini (12). Che dire dell’azione politica rispetto ai problemi ambientali? A livello nazionale, secondo l’Institute for Women’s Policy Research, quanto a partecipazione e ruoli dirigenti, le donne sono meno presenti degli uomini; la direzione delle grandi organizzazioni ecologiste nazionali è per lo più maschile. Ma, a livello locale, nei gruppi che si formano per combattere una particolare minaccia contro l’ambiente o per difendere la salute o la sicurezza della comunità, la presenza delle donne, in quanto partecipanti e organizzatrici, è maggiore di quella degli uomini. Quasi la metà dei gruppi di cittadini che si sono formati in reazione a disastri ecologici, come emissioni dannose fuoriuscite da fabbriche o incidenti nucleari, sono guidati da donne o sono comunque in maggioranza femminili. Ma tutto questo va considerato come la prova di una differenza sostanziale, tale da resuscitare stereotipi patriarcali? Bisogna accettare che gli uomini controllino i movimenti ecologisti nazionali, o che solo le donne si facciano carico delle necessità legate alla cura degli altri? E che dire del mancato riconoscimento che le donne infliggono a se stesse in nome del femminismo? Perché il rischio è quello di un ritorno alle «sfere separate». Anche per le «casalinghe radicali», la sfera domestica finisce per perdere ogni attrattiva, come osserva la saggista femminista Peggy Orenstein, se i loro compagni non sono coinvolti in modo paritetico. «Se [le donne] non vivono tutto questo come una relazione veramente paritaria» mette in guardia, possono avvertire «una perdita del rispetto di sé, una perdita di vitalità e sentirsi incapaci di reinserirsi nel mondo e trovare i propri punti di riferimento (13)». Quando sono gli uomini a guadagnare praticamente tutto il denaro che serve per vivere, mentre le donne si occupano quasi da sole della casa, ne risulta uno squilibrio di potere nella famiglia che nuoce sia alle donne che ai figli. Un vero cambiamento, tanto sociale quanto ecologico, può avvenire senza occuparsene davvero?


note:
* Militante dell’ecologia sociale, Burlington (Vermont, Stati uniti). Autrice di Rethinking Ecofeminist Politics, South End Press, Cambridge (Massachusetts, Stati uniti), 1991.
(1) Paul Ehrlich, La Bombe P. Sept milliards d’hommes en l’an 2000, Fayard, Parigi, 1972.
(2) Françoise d’Eaubonne, «Que pourrait-être une société écoféministe?», in Liberté, égalité…et les femmes? (collettivo), L’Harmattan, Parigi, 1990.
(3) Rachel Carson, Silent Spring, Houghton Mifflin, Boston, 1962.
(4) Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jørgen Randers e William W. Behrens III, The Limits to Growth, Universe Books, New York, 1972. 5) Fritjof Capra, The Turning Point, Simon & Schuster, New York, 1982; Green Politics: The Global Promise, Dutton, New York, 1984.
(6) Carol Gilligan, In a Different Voice, Harvard University Press, Cambridge, (Massachusetts), 1982.
(7) Leggere Evelyne Pieiller, «Liberté, égalité…«care»», Le Monde diplomatique, settembre 2010.
(8) Mary Daly, Gyn/Ecology: The Metaethics of Radical Feminism, Beacon Press, Boston, 1978.
(9) Jodi Jacobson, «Women’s work», Third World, n° 94-95, McGraw-Hill, New York, gennaio 1994.
(10) Wen, «Gender and the climate change agenda», www.wen.org.uk, 2010.
(11) Shannon Hayes, Radical Homemakers. Reclaiming Domesticity from a Consumer Culture, Left to Write Press, Richmondville (Stati uniti), 2010.
(12) «Are men to blame for global warming?», New Scientist, Londra, 10 novembre 2007.
(13) Peggy Orenstein, «The femivore’s dilemma», The New York Times, 11 marzo 2010. (Traduzione di G. P.)