Le leggi del popolo affondate da deputati e senatori

•12 settembre 2011 • Lascia un commento

A voler essere superstiziosi, non c’è da star tranquilli. Nell’ultima legislatura, delle 17 leggi di iniziativa popolare presentate, 17 sono ancora ferme in Parlamento. Ma qui non è questione di sfortuna, è la volontà politica che manca. Altrimenti non si spiegherebbe come mai, delle quasi cento proposte depositate alla Camera e al Senato negli ultimi 15 anni (alcune sono state ripresentate identiche nelle diverse legislature) soltanto 8 sono catalogate in “stato concluso”. Tutte perché assorbite in un testo unico o assorbite da altri disegni di legge.

Per ognuna di queste proposte di legge, sono state raccolte almeno cinquantamila firme ma, si è visto nel caso della proposta Grillo, possono contare anche 350 mila sostenitori. Eppure nemmeno la forza dei numeri è servita a farla uscire dai cassetti del Parlamento. Tutte impolverate, come il disegno di legge anti-corruzione che Il Fatto ha presentato, proprio in questi giorni, un anno fa. Era settembre del 2010 e alcuni parlamentari dell’opposizione (Antonio Di Pietro dell’Idv, Luigi Zanda del Pd e il finiano Fabio Granata) prendevano sotto braccio la nostra proposta. Ma nemmeno “il cappello” istituzionale ha accelerato i passi di quella norma di cui avremmo parecchio bisogno.

Magra consolazione scoprire che, prima delle vacanze, l’8 giugno scorso, è stato deliberato  lo “stato di relazione”. A portarla in giro per le altre commissioni sarà il relatore nominato dalla maggioranza, Alberto Balboni. “Purtroppo i regolamenti parlamentari non riconoscono ‘diritti’ alle iniziative legislative dell’opposizione – spiega il senatore Idv Luigi Li Gotti, che in commissione Giustizia ha cercato di portare avanti quel disegno di legge – L’unica garanzia è nel fatto che, se un disegno di legge viene fatto proprio da un gruppo, deve essere assegnato in tempi brevi e deve iniziare l’esame in commissione”. Così è stato, peccato si sia fermato lì. Perché una volta iniziato l’esame, “il calendario dei lavori è stabilito dall’Ufficio di presidenza. E, qui, contano i numeri”.

Così come contano i numeri in commissione Affari esteri: ci sarebbe pronta da approvare la ratifica (aspetta dal 1999) della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla corruzione, mai i parlamentari pdl fanno sistematicamente mancare il numero legale. Questi numeri pesano, quelli dei cittadini molto meno.

Per esempio, i 50 mila aquilani che hanno presentato una legge di Solidarietà nazionale perché da due anni aspettano un intervento dello Stato che non arriva. Solo aver cambiato strategia (scegliendo il referendum) si è riusciti ad accelerare su un tema, quello dell’acqua pubblica, che dal luglio 2007 i cittadini avevano posto al Parlamento. Ma l’abrogazione di parti del decreto Ronchi non basta, ci vuole una nuova legge, e la trafila delle firme è già ricominciata.

Così come sarebbe ferma in commissione da gennaio 2009 anche una proposta di modifica delle “norme per l’elezione della Camera dei deputati e la reintroduzione del voto di preferenza”. Chissà se anche dalla “porcata” ci salverà un altro referendum.

 

(Paola Zanca, Il Fatto, 11-09-2011)
© Il Fatto Quotidiano

La (in)cultura dei frustrati al potere

•12 settembre 2011 • Lascia un commento

All’inizio pensi che il problema sia fisico: l’altezza, la pancia, l’età. Tutto moltiplicato dal potere. Il quale – specie nei frustrati – funziona come un popper stordente, bollicine di eccitazione nella testa, vertigine, senza più nemmeno gli schiaffi della mamma: tieni la lingua a posto, stupido.

Ma quando vedi che un Sacconi, un Brunetta e naturalmente il Capo biascicano barzellette sconce, per anni, e insulti contro le donne, contro i precari, contro i magistrati, stavolta persino contro le suore, sempre gonfiando il petto, ma senza rischi, circondati come sono dalla bambagia dei guardaspalle, dei servi e protetti dalla incommensurabile ottusità del denaro, ti chiedi se sia davvero il contesto ad allestire loro il testo.

Se bastino le insufficienze dei loro corpi a giustificare questo surplus di deiezioni verbali che una infinità di altri maschi adulti nelle loro condizioni – uomini di Stato o Finanza o Impresa – mai si sognerebbero di pronunciare.

E dunque ne concludi che la loro pubblica esibizione corrisponda a una voluttà, a un godimento per queste impudicizie che viene proprio da dentro. Da quell’indole ammaestrata dall’esperienza che gli antropologi chiamano cultura.

 

(Pino Corrias, Il Fatto, 10-09-2011)
© Il Fatto Quotidiano

La presa in giro della Padania

•12 settembre 2011 • Lascia un commento

Anche mentre sta per finire, il regime ha i suoi servi. Per esempio tutti coloro che hanno laboriosamente contribuito alla messa in scena detta " Giro della Padania", dal Coni alle varie federazioni sportive alle autorita’ compiacenti, agli sponsor privati.

Escludo dalla lista la  polizia. Un accidente della storia ha voluto che diventasse ministro dell’ Interno un infiltrato nella repubblica Italiana che viene dalla Padania ed che vuole la secessione dall’Italia, uno che sulla Padania ha giurato prima di giurare nelle mani del Capo dello Stato ( e nessuno gli ha detto niente), uno che fa il ministro italiano in cravatta verde (e tutto vestito di verde la domenica) e che si trova a comandare la nostra polizia.

Nessuno aveva mai tanto umiliato gli agenti, funzionari e ufficiali della Polizia di Stato ordinando misure di ordine pubblico, e persino interventi e cariche, a difesa di un luogo che non esiste. Infatti chiunque sa che la Padania non esiste, che e’ una trovata tipo " la
pasta del capitano"( parlo di pubblicita’ dei tempi andati) a cui manca pero’ la buona volonta’ di fornire il prodotto.

E cosi’ accade, negli ultimi giorni di esistenza politica del grande sponsor di tutti i peggiori eventi che hanno segnato la nostra vita pubblica, divedere ciclisti veri e professionali che pedalano in un territorio italiano che una banda separatista ( ma anche governativa, caso unico nella storia) chiama " Padania". E invece si sono lasciati trasformare ( e pagare ) in galoppini politici di un patetico movimento al tramonto.

Come sa bene Tarantini, il grande Sponsor vede  e provvede. Quel che e’ cambiato, caro Calderoli, e’ l’umore del pubblico. E’ gente che vive e lavora da quelle parti, non giudici e presidi meridionali mandati apposta per poltrire nel Varesotto .E’ gente vera, del luogo, che, se usasse il linguaggio del ministro Bossi, direbbe che, di questi tempi, il carnevale in bicicletta della della  Padania gli fa " girare le balle" .

I leghisti tentano di dire che sono tutti comunisti coloro che si oppongono al giro ciclistico di un Paese che non c’e. E’ piu’ probabile che si tratti di cittadini messi di cattivo umore dalla quinta manovra e dalla faccia di tolla ( come si dice al Nord ), di gente che apre e inaugura ministeri che non esistono, fa il giro ciclistico di un luogo che non c’e’ e poi vota compatta, con il sistema della fiducia ( che vuol dire " niente discussione") una " manovra" cattiva quasi solo per chi lavora.

Se fossi Bossi ripenserei anche all’altra buffonata, quella dell’acqua del Po, seguita dal tricolore al cesso. Sara’ il caso, con l’aria che tira?

(Furio Colombo, Il Fatto, 12-09-2011)
© Il Fatto Quotidiano

Da Lavitola in giù

•12 settembre 2011 • Lascia un commento

Che il Cavaliere dimezzato viva e ragioni soltanto da Lavitola in giù, era noto. L’ha detto lui stesso in una delle ultime telefonate intercettate, tracciando il bilancio sintetico ma completo dei suoi primi 17 anni da statista: “Di me possono dire solo che scopo” (“utilizzo”, direbbe l’on. avv. Ghedini).

Mai fu pronunciata verità più vera: che altro ha combinato, dal ‘94 a oggi, a parte quella cosa lì? Nada de nada, se si eccettuano – si capisce – le telefonate fatte prima di utilizzare, per scegliere la mercanzia dal catalogo dei Tarantini, Mora, Fede; e quelle fatte dopo aver utilizzato, per coprire il tutto a suon di bigliettoni.

Un po’ come i gatti, che prima la fanno e poi la coprono. Solo che i gatti, poi, fanno anche altro. Lui invece fa solo quello: un intero Paese appeso al pisello presidenziale e alle sue mirabolanti avventure e disavventure: tutto – Consigli dei ministri e dibattiti parlamentari, ribaltoni e rimpasti, questioni di fiducia e mozioni di sfiducia, riforme costituzionali e leggi ordinarie, polemiche fra politici e politologi, consulenze Eni e Finmeccanica, casting nel cinema e in tv, indagini e processi, nomine ed epurazioni in Rai, Mediaset, La7, Mondadori – ruota attorno alle peripezie di quel coso lì e alle sue svariate utilizzazioni.

Le 1732 telefonate intercettate in 6 mesi con Ruby e le altre Papi Girl, svelate l’altro giorno dal sempre astuto on. avv. Ghedini, corrispondono a una media di 10 al giorno, una ogni due ore (lui dorme poco). Poi ci sono tutte quelle non intercettate: ché i giudici, per quanto s’impegnino, non possono conoscere tutte le mignotte in attività sul suolo patrio e nei paesi comunitari ed extra (ne è appena saltata fuori una che lo ricatta dal Montenegro).

E che altro doveva consigliare B. a Lavitola che da Sofia (sempre bulgaro è l’editto) domandava: “Che faccio? Torno e chiarisco tutto ai pm?”. Alle parole “chiarire” e soprattutto “pm”, B. ha innestato il pilota automatico: per carità, “resta dove sei” (sottinteso: prima o poi ti raggiungo). Tanto la latitanza, specie dei socialisti, si chiama “esilio”, no?

Chissà perché Ghedini si agita tanto per dimostrare contemporaneamente che “la notizia è infondata e assurda” e che “la conversazione è privata e irrilevante: B. non aveva alcun motivo di sconsigliare a Lavitola di tornare in Italia”.

Grande è la confusione sotto il coso: se la notizia è infondata, vuol dire che la conversazione non esiste; invece lo stesso Ghedini ammette che esiste, pur definendola privata e irrilevante. Molto meglio, o meno peggio, il commento di B., in linea con lo scajoliano “a mia insaputa” (“non ricordo quelle mie parole”: la memoria ha sede nella parte superflua del corpo, da Lavitola in su). E persino quello di Tibia Sallusti: “Anche se fosse vero, il suggerimento non farebbe una piega: Lavitola non finirebbe davanti a magistrati sereni e imparziali, ma a gente che ha già scritto la sentenza a prescindere dai fatti e dalle regole”. Lo dice pure Cesare Battisti.

Ora in Parlamento gira voce di una nuova telefonata in cui B. definisce la cancelliera Merkel “culona inchiavabile”. Noi non vogliamo crederci neppure per scherzo, ma se la voce gira è perché è credibile, se non probabile. Del resto, cosa resta di incredibile o di improbabile a proposito di B.? Se, come dice lui, “di me possono dire solo che scopo”, è naturale che divida l’umanità tra esseri chiavabili e non. E comunque la posizione dell’Italia non migliorerebbe se, per rimediare, dicesse che la Merkel è un “culetto chiavabile”.

Certo, se fosse tutto vero, non vorremmo essere i titolisti del Pompiere. Dopo l’immortale “cauto sollievo del Colle”, ne han fatta un’altra: sull’istigazione alla latitanza di Lavitola, hanno titolato “Premier al telefono, un caso”. Un caso? Nel senso di casualità? Improbabile: quello al telefono ci passa la vita, anzi Lavitola. E allora dev’esserci stato un refuso. Forse volevano scrivere “caos” o “casino”? Impossibile: vocaboli troppo allarmistici, quasi terroristici. Non resta che un’alternativa: “Premier al telefono, un coso”. Ecco.

(Marco Travaglio, Il Fatto, 10-09-2011)
© Il Fatto Quotidiano

Il gioco delle 30 cavte del ministro Tvemonti

•9 settembre 2011 • Lascia un commento

Ecco la ricetta anti-crisi secondo Corrado Guzzanti, versione ministro Tremonti, intervistato da Caterina Guzzanti. “Recital” è andato in onda ieri su Sky Uno (in replica oggi alle 15:45 e domani alle 20:35).

image

 

Onorevole Tremonti la crisi è drammatica e internazionale. Lei dice che l’aveva prevista.

Sì è vero avevo previsto tutto, avevo detto c’è il grande cetriolo globale che sta arrivando, sta per arrivare la disgrazia, c’è il grande cetriolo globale che gira, che vola basso, l’Italia deve camminare rasente muro e sperare che va a qualcun altro.

(…) Il governo italiano dà pochi soldi e spesso non è neanche chiaro se c’è veramente la copertura.

Guardi, non diciamo balle, abbiamo appena stanziato 30 miliardi per gli ammortizzatori sociali, 30 miliardi per le infrastrutture, 30 miliardi per le imprese.

Quindi sono 90 miliardi?

No, ho detto 30. Vado da uno egli dico ‘ti do 30 miliardi, ecco te li ho dati, tu scrivi che te li ho dati, adesso me li riprendo un attimo e te li riporto subito’. Corro al fondo degli ammortizzatori sociali e gli dico ‘ecco vi do 30 miliardi, ecco ve li ho dati, scrivi che te li ho dati e io me li riprendo un momento e li riporto subito…’

Quindi lei mi sta dicendo che le misure prese dal governo italiano sono all’altezza di quelle degli altri?

No, io le dico qualcosa di più: l’Italia è messa molto meglio di altri paesi.

Cioè? Come?

(…) Abbiamo sempre fatto giochi col bilancio, giochini, giochetti creativi, condoni, annunci e disannunci. L’italiano sa che il governo vuole fregarlo quindi sta ancora più attento,  paradossalmente partecipa ancora di più, quindi ancora più democrazia!

Aspetti, aspetti ministro non se ne vada, c’è gente che non ce la fa ad arrivare alla fine del mese.

Ahò ma mica è una gara eh? Dove arrivi arrivi…

 

(Il Fatto Quotidiano, 09-09-2011)

Abolizione Art.18: Per Sacconi è un finto stupro

•9 settembre 2011 • Lascia un commento

Non c’è che dire. Gran signore (e ottimo tecnico) il ministro Maurizio Sacconi che per spiegare alla platea dei giovani del Pdl le modifiche all’articolo 8 (contrattazione territoriale) usa una barzelletta-metafora davvero degna del leader del suo partito.

“Faccio un esempio un po’ blasfemo – ha esordito – quello che disse una suora in un convento del ‘600, dove entrarono dei briganti. Le violentarono tutte tranne una. Il Santo Uffizio la interrogò e le chiese: ‘Ma come mai non è stata violentata?’. Lei rispose: ‘Perché ho detto di no’. Ecco: come le suore non stuprate, i sindacati possono dire di no”.

Sdegno delle donne Pd e del comitato Se non ora quando? Dalle signore ministro o parlamentari del Pdl, invece, zero assoluto.

Ad eccezione del sottosegretario Eugenia Roccella che rilancia: “Chi si è offeso per la barzelletta sullo stupro è affetto da strabismo ideologico”.

 

(Elisabetta Reguitti, Il Fatto, 09-09-2011)
© Il Fatto Quotidiano

Poltrone gonfiate

•9 settembre 2011 • Lascia un commento

Altro che austerity: i costi del Palazzo sono lievitati. Loro lo sanno e si nascondono.

Dal regale e imperioso “lei non sa chi sono io”, all’emergenziale e clandestino “Lei non sa chi non sono io”. Ci voleva la penna arguta e l’occhio da esperto raccontatore di Palazzo di una firma della Stampa come Fabio Martini, per fotografare l’immagine che racconta il passaggio di epoca: quella dell’onorevole della Seconda Repubblica e mezzo che per strada nega la sua funzione, la sua identità, la sua immagine, nei tempi della grande crisi.

Abbiamo visto passare due Repubbliche in cui i parlamentari esibivano il proprio orgoglio, ci prepariamo a una terza in cui aspirano alla clandestinità. Un motivo, un motivo brutale, matematico, immediato, per spiegare questa repentina mutazione di status, in effetti c’è. La manovra più pazza del mondo, quella che balla ogni giorno la sua danza tra Camera e Senato  annunciando nuovi balzelli e variando i propri totali, annunciava sfracelli, e ha partorito un topolino.

La Casta ha annunciato e propagandato i propri sacrifici, ha raccontato il senso responsabile del martirio autoimposto e dei tagli di bilancio. E ha partorito l’ennesima piccola grande truffa, un balletto di cifre taroccate, che nascondono l’invarianza dei saldi.

Un esempio? Il contributo di solidarietà raddoppiato che preoccupava tanto l’onorevole Paniz (“Se va bene prenderò solo 300 euro!”), in realtà si applicherà solo ai parlamentari che guadagnano di più (presidenti, vicepresidenti e presidenti di commissione). Quanti? Su quasi mille, secondo i calcoli dei due inchiestisti anti-Casta, Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, si applica sì e no a trenta persone.

Tutti coloro che vogliono leggere una fotografia vivida, impietosa e persino feroce di questa ennesima operazione gattopardistica, non devono fare altro che leggere l’ultimo libro della premiata ditta Stella-Rizzo. Si intitola Licenziare i padreterni (Rizzoli, 180 pagine 9 euro), ed è un instant book che documenta in diretta i conti fallimentari dello Stato e la velleità dei tanto sbandierati tentativi di (auto) riforma.

“Padreterni”, non  è una recente ingiuria tratta dall’arsenale di qualche profeta dell’antipolitica, ma una definizione ironica tratta dalla penna alata di un padre della Repubblica come Luigi Einaudi: “A Roma spadroneggia un piccolo gruppo di padreterni, i quali si sono persuasi, insieme con qualche ministro, di avere la sapienza infusa nel vasto
cervello. Bisogna licenziare questi padreterni orgogliosi, persuasi di avere il dono divino di guidare i popoli nel procacciarsi il pane quotidiano. Troppo a lungo li abbiamo sopportati”.

Volete scaldarvi con una raffica di numeri emblematici tratti dal breve e caustico saggio?
Eccone alcuni che fanno riflettere. Stella e Rizzo hanno passato allo scanner i conti della politica. Per scoprire, ad esempio, che sulle donazioni che hanno prodotto sconti fiscali, ogni 100 mila euro, 392 euro vanno a enti benefici e ben 19 mila vanno ai partiti politici.

Hanno riaggregato le fumose voci di bilancio del Palazzo per scoprire che la Camera  dei deputati è passata da 291 milioni di euro del 1983 a un miliardo e 59 milioni del 2011. Totale dell’aumento, attualizzando il calcolo? La percentuale calcolata da Stella e Rizzo fa fare un salto sulla sedia: più 41,28% di spesa, alla faccia dei proclami moralizzatori e degli inviti all’austerità.

E il Quirinale? Nel 2001 spendeva 140.476 milioni di euro. Nel 2011 ne spende 228 milioni, con un aumento del 62% (!). E che dire del Senato? Passa da 154,7 milioni del 1983 a 574 milioni del 2011. Totale dell’aumento di bilancio? Una cifra mostruosa, più 65%.

Ma messi in rapporto al Pil i numeri si fanno ancora più inquietanti: l’aumento delle spese correnti della Camera è pari al 367%. D’altra parte, si fa presto ad aumentare le spese, se è vero che, solo per gli affitti dei Palazzi di Montecitorio spende 411 milioni di euro. Tutto è cresciuto: gli immobili, i dipendenti, i budget. E che dire del 31esimo stormo della Presidenza del Consiglio, quello che assicura i cosiddetti voli di Stato? Stella e Rizzo raccontano il piccolo capolavoro di tenacia che è costato mettere insieme quei dati.

Nel 2005, gli autori de La Casta avevano elaborato una media inquietante secondo cui la flotta dei voli blu aveva volato – in media – per 37 ore al giorno (!). Quest’anno, bombardando Palazzo Chigi per tre mesi di seguito, i due autori hanno finalmente ottenuto una risposta. Rielaborando i numeri esce fuori che oggi le ore sono addirittura aumentate del 20%. Stella e Rizzo sono andati a caccia delle singole cifre.

Lo stipendio medio di un dipendente pubblico è 36.135. Quello di un dipendente Camera della 131.586 euro. E che dire delle piccole grandi vergogne? Che dire di Giuseppe Bova, ex vicepresidente (diessino) del consiglio regionale calabrese che si vantava dicendo: “Io
non uso l’autoblu!”. Stella e Rizzo hanno trovato la cifra che Bova ha ottenuto come rimborso per l’uso dell’auto privata: 211 mila euro per quattro anni.

Vogliamo aprire la piaga del finanziamento pubblico? E che dire del pugliese Giovanni Copertino, ex democristiano ed ex berlusconiano, esponente di punta delle giunte Fitto? Dopo venti anni di assemblea regionale ha incassato 492 mila euro di liquidazione. Qui le piccole storie si riverberano in quelle grandi, e le cifre ballano. Stella e Rizzo hanno calcolato quanto hanno percepito i partiti di finanziamento pubblico in 36 anni: 5 miliardi e mezzo di euro.

Licenziare i padreterni è un racconto godibile e indignato, ma anche un libro di autodifesa. Finché quel frammento di società politica che viene definito Casta non ridurrà la sproporzione fra gli annunci e  la realtà, la rabbia della società civile sarà difficile da placare.

(Luca Telese, Il Fatto, 09-09-2011)
© Il Fatto Quotidiano

Pareggio di bilancio: il vero problema è la politica

•9 settembre 2011 • Lascia un commento

Introdurre il vincolo al pareggio di bilancio in Costituzione è inutile e dannoso. La Carta sintetizza un equilibrio complesso di funzioni e poteri ed è preferibile interpretare i principi e le disposizioni, anziché metterci mano con modificazioni esplicite. La fretta e l’emergenza sono poi la  via più facile per produrre pasticci, come dimostra il ddl costituzionale  licenziato ieri dal Consiglio dei ministri per modificare l’articolo 81.

Sotto la spinta della crisi finanziaria prende corpo la sindrome del talpone: per colpire l’animale che distruggeva i raccolti alla fine si decise di seppellirlo vivo. Tale è la scelta di stabilire un vincolo costituzionale puntuale (“Il bilancio dello Stato rispetta l’equilibrio non può essere sostenuto con le ordinarie decisioni di bilancio”. In caso di emergenza, le Camere, a maggioranza assoluta, possono decretare lo stato di necessità.

Per quanto riguarda le Province ci sono ancora meno certezze. La misura è in apparenza
drastica: dal Titolo quinto della Costituzione, la parte sugli enti locali, scomparirà la parola “Province”. Restano Comuni, Regioni e Città metropolitane (tipo quella di Milano).
Semplice, no? Quasi.

Intanto, ammesso che la modifica passi, scatterà solo a fine mandato, consiglieri e presidenti di Provincia non saranno destituiti. E al posto delle Province nasceranno delle “unioni di Comuni” per le “funzioni di area vasta”. Delle Province, insomma, con le stesse funzioni ma senza elezioni. E i dipendenti non si possono licenziare: “Andranno ai Comuni o alle Regioni, dove il costo del lavoro è il 25 per cento in più. Il contratto degli enti locali rispetto a quello regionale è meno vantaggioso”, spiega il presidente dell’Upi, l’unione delle entrate e delle spese”).

Lo stesso vincolo viene esteso, con la modifica dell’art. 119, a tutti gli enti territoriali, la cui autonomia finanziaria di entrata e di spesa viene subordinata al “rispetto dell’equilibrio dei bilanci”. La golden rule, la possibilità cioè di contrarre debiti per finanziare gli investimenti resta ma sarà necessaria la “definizione di piani di ammortamento” (che andrebbero fatti, non declamati in Costituzione!), nonché rispettati i principi e i criteri stabiliti da una legge che, prevista dal nuovo articolo 53, fisserà ”i vincoli che derivano dall’Unione europea e le modalità di contenimento del debito delle amministrazioni pubbliche”.

Il sistema viene ingessato al punto che è necessario introdurre importanti eccezioni (“Non è consentito ricorrere all’indebitamento, se non nelle fasi avverse del ciclo economico nei limiti degli effetti da esso determinati, o per uno stato di necessità che non può essere sostenuto con le ordinarie decisioni di bilancio”). Lo stato di necessità viene dichiarato dalle Camere “in ragione di eventi eccezionali, con voto espresso a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti”. Tutto ciò amplifica le situazioni di crisi e
si potranno determinare situazioni di stallo, analoghe a quella registrata negli USA a proposito della recente discussione sull’innalzamento del tetto del debito.

L’approccio è quello del vincolo cartaceo e ragionieristico, una illusoria barriera alla crescita della spesa. Il debito non va visto esclusivamente come una montagna da ridurre ma, nei limiti della sostenibilità, come scommessa sul futuro. Una gestione equilibrata della finanza pubblica non ha bisogno di modifiche costituzionali, ma del ripristino di procedure decisionali ordinate e trasparenti.

Sul fondamento economico del pareggio di bilancio sono stati espressi seri dubbi. In una recentissima lettera al presidente Usa Barack Obama 8 premi Nobel per l’Economia chiedono che “venga respinta qualunque proposta volta ad emendare la Costituzione degli Stati Uniti inserendo un vincolo in materia di pareggio del bilancio”.

Il sistema costituzionale vigente in Italia già prevede peraltro il vincolo del pareggio. Al margine, attraverso l’art. 81 che al IV comma prevede che per ogni nuova  spesa è necessario indicare (nel ddl del governo si sostituisce la parola con “provvedere”, ripercorrendo, all’indietro, una discussione già fatta nella Assemblea costituente) i mezzi per farvi fronte. E a livello complessivo, attraverso il Patto di stabilità e crescita, norma di rango costituzionale, che prevede il pareggio al netto del ciclo economico.

Il presidio dei conti pubblici è in questo modo ampiamente garantito a livello costituzionale. Sta alla politica non sfasciarli con comportamenti  elusivi e opportunisti.

(Marcello Degni, Il Fatto, 09-09-2011)
© Il Fatto Quotidiano

Le province cambiano nome, il deficit zero è un miraggio

•9 settembre 2011 • Lascia un commento

La vera notizia è che tra i disegni di legge costituzionali varati ieri dal Consiglio dei ministri non c’è quello sul dimezzamento del numero dei parlamentari. Era l’ultima occasione per salvare almeno l’immagine, dopo averlo più volte annunciato nei vari passaggi della manovra e sempre smentito. Niente da fare.

Dal Consiglio dei ministri mattutino, ieri, escono soltanto due disegni di legge costituzionali: quello sul pareggio di bilancio inserito nella Costituzione  e quello sull’abolizione delle province.

Postilla d’obbligo: i tempi per queste riforme, ammesso che il Parlamento le approvi mai, sono lunghissimi. Serve la maggioranza qualificata (i due terzi) sia alla Camera che al Senato, in caso contrario si va a un referendum senza quorum, come quello del 2006 in cui la cosiddetta devolution della Lega e la riforma presidenziale vennero bocciate con ampio margine dagli elettori.

Il pareggio di bilancio “non sarà solo un criterio contabile”, assicura il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Parole criptiche, che significano però una  sola cosa: non ci saranno automatismi, anche il pareggio di bilancio (cioè la garanzia che il deficit sarà zero) avrà le sue flessibilità.

In teoria l’articolo 81 già ora avrebbe dovuto agire come freno agli eccessi: “Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”. Ma i “mezzi” sono stati troppo spesso i Bot e i Btp, con il risultato che il debito pubblico è arrivato a 1.900 miliardi, perché la Costituzione fissava solo un criterio ex ante senza verifiche e sanzioni o correzioni automatiche ex post. Ora si vogliono introdurre, con una modifica dell’articolo 53, “le verifiche a consuntivo   e le eventuali misure di correzione, in base ai principi e ai criteri stabiliti con legge, approvata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna delle Camere”. Mentre gli enti locali – Comuni, Regioni e Province (sempre che non scompaiano) si possono indebitare solo per fare investimenti, e non perché finiscono i soldi in cassa.

Ora lo scopo è soprattutto di dare un segnale ai mercati finanziari, un po’ frastornati dai quattro-cinque tentativi dell’Italia di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013 con la manovra estiva forse arrivata alla sua versione finale. Per ora, però, siamo agli annunci. Ci vorranno molti mesi per concludere, ammesso che ci si riesca, il percorso iniziato ieri.

La Spagna ci ha messo solo due settimane per approvare il pareggio di bilancio costituzionale, modificando per la prima volta dal 1978 la Costituzione. Gli indignados – e non solo – temono che questo vincolo impedisca di fare politiche di deficit spending in tempi di recessione, cioè di usare la spesa pubblica per far ripartire la crescita. Un problema che Tremonti considera risolto modificando l’articolo  81 vietando il ricorso al debito “se non nelle fasi avverse del ciclo economico nei limiti degli effetti da esso determinati, o per uno stato di necessità che non può essere sostenuto con le ordinarie decisioni di bilancio”. In caso di emergenza, le Camere, a maggioranza assoluta, possono decretare lo stato di necessità.

Per quanto riguarda le Province ci sono ancora meno certezze. La misura è in apparenza
drastica: dal Titolo quinto della Costituzione, la parte sugli enti locali, scomparirà la parola “Province”. Restano Comuni, Regioni e Città metropolitane (tipo quella di Milano).

Semplice, no? Quasi. Intanto, ammesso che la modifica passi, scatterà solo a fine mandato, consiglieri e presidenti di Provincia non saranno destituiti. E al posto delle Province nasceranno delle “unioni di Comuni” per le “funzioni di area vasta”. Delle Province, insomma, con le stesse funzioni ma senza elezioni. E i dipendenti non si possono licenziare: “Andranno ai Comuni o alle Regioni, dove il costo del lavoro è il 25 per cento in più. Il contratto degli enti locali rispetto a quello regionale è meno vantaggioso”, spiega il presidente dell’Upi, l’unione delle Province, Giuseppe Castiglione.

Che per chiosare la rivoluzione annunciata ieri dal governo propone: “Regalerò a tutti i ministri una copia del Gattopardo. In edizione economica perché noi delle Province siamo i primi a voler risparmiare”.

Tutto deve cambiare perché niente cambi. Dietro la cortina fumogena delle riforme costituzionali c’è sempre la manovra da quasi 60 miliardi in tre anni. Lunedì arriverà alla Camera, anche lì ci sarà il voto di fiducia a blindarla. Il presidente della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet, ieri, ha dato una prudente approvazione dell’ultima versione: “Dopo alcune esitazioni, alcune complessità, alla fine si è visto qualcosa che va nella direzione dell’impegno iniziale”. Poi ha precisato che Francoforte non ha imposto nulla all’Italia: “Solo messaggi”.

Come dire: noi abbiamo dato indicazioni, ma quello che ha fatto il governo è solo responsabilità sua.

(Stefano Feltri, Il Fatto, 09-09-2011)
© Il Fatto Quotidiano

La dolcevitola

•9 settembre 2011 • Lascia un commento

Gli pareva strano di non essere indagato. Ma come: lui, il massimo collezionista di reati della storia moderna e anche antica, scaduto a “parte offesa”? Dopo una vita passata a guadagnarsi accuse di strage, mafia, riciclaggio, corruzione giudiziaria e non, finanziamento illecito ai partiti, falso in bilancio, frode fiscale, appropriazione indebita, abuso d’ufficio, estorsione, prostituzione minorile, minaccia a corpo dello Stato, aggiotaggio, falsa testimonianza, calunnia e diffamazione, quando ormai per completare l’album gli mancavano solo il taccheggio al supermercato, l’immigrazione clandestina e l’abigeato, arriva dalle toghe rosse l’estremo oltraggio: un’indagine che, anziché accusarlo di aver commesso un reato, ipotizza che l’abbia subìto. Per molto meno, negli ambienti della mala, rischi di passare per frocio. Non sia mai.

E così, appena ha saputo in anteprima dell’inchiesta di Napoli – la prima della storia in cui non figura come protagonista, ma come comparsa, per giunta vittima di un Gianpi e un Lavitola – ecco il colpo di reni per tornare l’imputato di un tempo: l’editto bulgaro telefonico a Lavitola, riparato a Sofia, per raccomandargli di restarsene all’estero.

Consiglio che di lì a poco si rivelerà prezioso: Valterino scamperà al prevedibile mandato di cattura piovutogli sul capino nel giro di qualche giorno. Ma, sventuratamente, l’abile mossa ha fatto cilecca: come spiega Tinti qui a fianco, incitare alla latitanza non è reato (non lo è nemmeno la latitanza, che anzi è un diritto).

Intendiamoci: B. non l’ha fatto apposta: era in assoluta buona fede,   sinceramente convinto di delinquere un’altra volta, come ai bei tempi. Solo che non ce la fa più. Sarà l’età, o la mancanza di allenamento, o la lontananza dai vecchi complici Previti e Dell’Utri, o l’ansia da imputazione: ma non è più lui.

Fino a pochi mesi fa commettere un reato gli riusciva facilissimo, naturale, come bere o respirare: ora invece, per quanti sforzi faccia, colleziona più fiaschi di una cantina sociale. Ma chi, come noi e le Olgettine, lo vorrebbe sempre in splendida forma, non deve disperare. L’ultima grande occasione si presenterà martedì, quando comparirà dinanzi ai pm di Napoli come testimone.

Certo, “testimone” non è una bella cosa. Anche perché, in quella veste disonorevole, B. sarà interrogato senza avvocati, nudo come mamma Rosa l’ha fatto. E, senza Ghedini che gli dà i calcetti sotto il tavolo e alla mala parata lo porta via di forza, è capace di tutto: anche di confessare l’affondamento del Titanic e l’abbattimento delle Due Torri.

L’ultima volta che gli capitò, nel ‘96, chiamato dagli avvocati di Dell’Utri a testimoniare nel processo di Torino per le false fatture di Publitalia, cercò di convincere i giudici che un po’ di evasione fiscale non ha mai fatto male a nessuno, anzi: quando ci vuole ci vuole. Risultato: Dell’Utri si beccò 3 anni di galera e, prudenzialmente, non lo chiamò più a testimoniare a suo favore, sennò gli davano l’ergastolo.

Ora lo chiamano i pm di Napoli: vogliono sapere tutto sugli 800 mila euro passati a Tarantini (più affitto e stipendio mensile di 20 mila euro, tutto rigorosamente in nero, nell’ambito della rinata lotta all’evasione) e in parte trattenuti da Lavitola. I casi sono due: o il teste B. mentirà anche a verbale, perseverando nella barzelletta dell’elemosina “a una famiglia bisognosa”. Oppure – Dio non voglia – dirà la verità sulle orde di sanguisughe che lo stanno spolpando vivo a suon di ricatti e sui fondi riservati da cui attinge tutto quel contante per tacitare questo e quella.

Nel primo caso, scatterebbe l’incriminazione per falsa testimonianza e ritroveremmo il formidabile  imputato colpevole degli anni verdi (la prima imputazione fu proprio di falsa testimonianza sulla P2, a Venezia, nel 1989, e il primo processo non si scorda mai). Nel secondo, non lo riconosceremmo più e dovremmo rassegnarci alla sua ineluttabile fine. Forza Cavaliere, non ci deluda.

(Marco Travaglio, Il Fatto, 09-09-2011)
© Il Fatto Quotidiano